Il blog di Joe7


Replying to DIVINA COMMEDIA DI NAGAI E DI DANTE: DANTE PADRE DELL'ITALIANO

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  1. Posted 10/3/2024, 21:29
    CITAZIONE (Andrea Micky 3 @ 10/3/2024, 21:22) 
    Dire che Dante é stato un grande poeta é riduttivo: con la sua prosa ha fatto l'Italia.

    Ha dato un'identità all'Italia: grazie alla lingua che lui ha "adottato", ha creato l'italiano corrente, in pratica. Per questo l'Italia è stata una Nazione, con una lingua ben definita (anche se la usavano i dotti, era comunque la lingua della nazione) ben prima di diventare uno Stato nel 1800.
  2. Posted 10/3/2024, 21:22
    Dire che Dante é stato un grande poeta é riduttivo: con la sua prosa ha fatto l'Italia.
  3. Posted 9/3/2024, 21:34
    DANTE, IL PADRE DELL'ITALIANO
    (primo post: qui; precedente post: qui)

    Dante



    Qui interrompo un momento la presentazione della Divina Commedia per chiarire meglio l'importanza di Dante e della sua opera. Prima di scrivere la Commedia, Dante fece il De Vulgari Eloquentia, "L'eloquenza del volgare". Perchè lo fece? Prima bisogna chiarire bene il termine "volgare".

    "VOLGARE": UN TERMINE DA CHIARIRE

    Dire "volgare" oggi significa dire "grossolano, rozzo". Ma questo non c'entra nulla col "volgare" a cui si riferisce Dante: il poeta infatti, con questo termine, si riferisce solo al linguaggio comune, cioè l'italiano puro e semplice.

    Ai tempi di Dante, le opere letterarie erano scritte in latino, la lingua dotta, quindi comprensibile a pochi. Dante, invece, decise di usare il volgare, o meglio l'italiano, per la sua opera, la Commedia. Allora il "volgare", o italiano, era solo la lingua comune usata per le poesie d'amore (come lo Stil Novo), o religiose, o comiche. Era considerata, come diremmo oggi "lingua da fumetto", quindi di poco conto.

    Dante, invece, voleva che il suo poema, anche se si trattava di un'opera monumentale, fosse letto, o ascoltato, dal maggior numero di persone possibile, e per questo utilizzò la lingua comune, italiana, detta allora "volgare", che tutti conoscevano e potevano capire. In questo modo, Dante dimostrò ai letterati "ciò che potea la lingua nostra": cioè, che con la lingua italiana era possibile affrontare qualsiasi argomento, esattamente come col latino.

    Quindi, la sua opera "De vulgari eloquentia", cioè "L'eloquenza della lingua volgare", suona meglio tradotta così: "L'eloquenza della lingua italiana", perchè è proprio di questo che Dante parlava. Il titolo, come si vede, è in latino, e tutta l'opera è stata scritta in latino, proprio per dimostrare ai dotti, usando la loro lingua latina, l'eloquenza dell'italiano comune, qui chiamato "vulgarus". Proprio dopo aver scritto quest'opera, cioè il De vulgari eloquentia, Dante passò dalle parole ai fatti: e infatti iniziò a scrivere la Divina Commedia in italiano. O "volgare", se preferite. Infatti, se avesse voluto scriverla nel dotto latino, avrebbe dovuto intitolarla "Comoedia", come esigeva il latino. Invece, il titolo era un italianissimo "Commedia".

    Di conseguenza, quando parliamo qui di "lingua volgare", parliamo della lingua italiana, esattamente quella usata da Dante nella "Commedia". "Nel mezzo del cammin di nostra vita", per esempio, è scritto in lingua italiana, che allora si chiamava volgare, cioè comune. Certo, qui è usata in modo elegante: Dante usa dei toni poetici, inventa persino delle parole nuove...ma resta il fatto che la Divina Commedia era stata scritta con la lingua di tutti. La lingua "volgare", cioè la lingua italiana. Per questo, Dante è considerato il padre della lingua italiana, perchè le diede dignità: dimostrò che con essa si poteva scrivere un'opera come la Divina Commedia. E dici poco.

    E non si è limitato ad usare un vocabolario popolare: lo ha anche arricchito, inventando parole o espressioni nuove che sono giunte fino a noi e sono di uso quotidiano. Facciamo qualche esempio.

    TREMARE I POLSI

    Quando parliamo di un'impresa così impegnativa da "far tremare i polsi"....stiamo citando Dante, perchè è stato il primo che ha usato quest'espressione, quando si trova davanti alla lupa nella selva oscura (Inferno, Canto 1):

    Vedi la bestia per cu’ io mi volsi; (Virgilio), vedi la belva che mi ha fatto voltare;)
    aiutami da lei, famoso saggio, (aiutami da lei, famoso sapiente,)
    ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi. (poiché essa fa tremare ogni goccia del mio sangue.)

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    MI TACCIO

    Quando nei talk show si dice "mi taccio", detto da una persona che ha parlato a lungo, anche questa espressione viene da Dante; all'Inferno, tra gli Eretici, Farinata degli Uberti risponde alle domande del poeta, usando alla fine quest'espressione (Inferno, Canto 10).

    Dissemi: "Qui con più di mille giaccio: (Mi rispose (Farinata): "Qui giaccio con più di mille dannati:)
    qua dentro è ’l secondo Federico, (qua dentro è Federico II di Svevia,)
    e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio". (nonché il cardinale Ottaviano degli Ubaldini; non ti dico nulla degli altri".)

    INURBARSI

    Molti sono anche i neologismi, cioè le parole inventate da Dante, spesso formati dal prefisso in- seguito da un nome o un aggettivo. Così abbiamo inurbarsi, che significa entrare in città, dal Purgatorio, nella Cornice dei Lussuriosi (Canto 26): lì le anime chiedono a Dante come mai lui è davanti a loro col suo corpo, cosa che non dovrebbe essere possibile nell'aldilà. E la risposta di Dante li stupisce come accade al montanaro, quando giunge in città e ammira muto ciò che non è abituato a vedere:

    Non altrimenti stupido si turba (Queste anime del Purgatorio restano stupite) allo stesso modo di come rimane meravigliato e istupidito)
    lo montanaro, e rimirando ammuta, (il montanaro, e ammira ammutolito (i monumenti cittadini)
    quando rozzo e salvatico s’inurba, (quando rude e selvaggio va in città)

    INGEMMARSI

    Ingemmarsi significa adornarsi luminosamente: anche questa è una parola inventata da Dante. L'ha detta nel Paradiso (Canto 15), riferendosi a Cacciaguida, chiamandolo "topazio" che ingemma la croce di luce che Dante vede nel Cielo di Marte.

    "Ben supplico io a te, vivo topazio ("Ora ti supplico, splendente topazio)
    che questa gioia preziosa ingemmi, (che sei incastonato questo prezioso gioiello (la croce),
    perché mi facci del tuo nome sazio" (di rivelarmi il tuo nome.")

    Croce-di-Marte


    INDIARSI

    "Indiarsi" significa "diventare Dio". Compare nel Canto 4 del Paradiso, durante la spiegazione di Beatrice, in cui dice a Dante che tutti contemplano Dio allo stesso modo, anche se sono presenti in Cieli diversi: sia il serafino più vicino a Dio (che "s'india", appunto), sia Mosè, Samuele, Giovanni Battista o Evangelista, la stessa Vergine Maria, hanno tutti la loro sede nello stesso Cielo (l'Empireo) in cui risiedono tutte le anime.

    D’i Serafin colui che più s’india, (Quel Serafino che è più vicino a Dio,)

    "Indiarsi" è una parola alta come poche altre: significa in primis l’atto di innalzare a Dio, e, per estensione, divinizzare. Per esempio, l’entusiasmo delle critiche più autorevoli può indiare l’opera di uno scrittore, e l’esperienza della conquista di una vetta difficile indía l’alpinista agli occhi del comune mortale.

    BELLA PERSONA

    "Bella persona" viene dal 5° Canto dell'Inferno, pronunciata da Francesca da Rimini, insieme a Paolo, nel girone dei Lussuriosi:

    “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, (“Amore, che subito ("ratto") accende il cuore nobile ("gentile"),
    prese costui de la bella persona (ha fatto innamorare costui (Paolo) del mio bel corpo)
    che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende” (che mi è stato tolto (da Gianciotto, il marito tradito, che l'ha uccisa); e il modo in cui mi fu tolto (l'omicidio) ancora mi ferisce.)

    E' un'espressione con cui Francesca da Rimini si riferisce al proprio corpo, di cui Paolo si innamorò e da cui l’anima è stata violentemente separata con l'omicidio. Dante qui la usa in senso fisico; oggi l’espressione si riferisce invece a chi ha doti morali (generosità, lealtà, ecc.).

    COSA FATTA, CAPO HA

    E' un'espressione presa dall'Inferno, Canto 28, dove ci sono i Seminatori di discordie (Ottavo Cerchio, Nona Bolgia). Uno dei dannati, Mosca dei Lamberti, alza i moncherini delle sue mani mozzate, da cui il sangue ricade sul volto: si presenta a Dante dicendo che la sua colpa fu l'uccisione di un nemico della sua consorteria, cosa che scatenò gravi conseguenze per i Toscani tutti, e aggiunge "Cosa fatta capo ha" cioè, il danno è stato fatto ed è irreparabile.

    gridò: "Ricordera’ti anche del Mosca, (Mosca dei Lamberti) gridò: "Ti ricorderai anche di Mosca dei Lamberti,)
    che disse, lasso!, "Capo ha cosa fatta", (che disse - ahimè! - "Cosa fatta capo ha",)
    che fu mal seme per la gente tosca". (che causò tanto male alla gente di Toscana".)

    Era un proverbio toscano, che Dante ha fatto entrare nell’italiano standard: significa che ogni cosa viene fatta con uno scopo, un obiettivo e, una volta fatta, non può più essere disfatta, nè annullata: non si può più tornare indietro. La si usa spesso per mettere fine a discussioni su cose ormai accadute, perché sono inutili.

    GALEOTTO FU

    L'espressione "galeotto fu" è usata adesso per indicare un oggetto, una persona o un avvenimento considerati “scintilla” per la nascita di una relazione amorosa… e non solo. Per esempio: io ho iniziato ad appassionarmi alla lingua inglese grazie alla serie tv Gossip Girl. Perciò, se qualcuno mi chiede “Come mai hai deciso di studiare l’inglese?”, potrei rispondere “Eh… galeotto fu Gossip Girl”.

    Questa espressione è tratta dal Quinto Canto dell'Inferno, tra i Lussuriosi, in cui compaiono Paolo e Francesca: quest'ultima racconta a Dante che loro due erano cognati, e, anche se Francesca era sposata con Gianciotto, si erano innamorati l’uno dell’altra leggendo un libro sulle avventure di Lancillotto e dei cavalieri della Tavola Rotonda. Galeotto, o Galehaut, era il siniscalco di Ginevra, che faceva da mallevadore ai due amanti del romanzo: tradì Re Artù, spingendo la regina Ginevra tra le braccia di Lancillotto. Nello stesso modo, il libro spinge metaforicamente Francesca tra le braccia di Paolo, facendo nascere la scintilla dell’amore, per la quale saranno uccisi dal marito di Francesca, fratello di Paolo.

    "la bocca mi basciò tutto tremante. ("Paolo) mi baciò la bocca tutto tremante.)
    Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: (Galeotto fu il libro e chi lo scrisse;)
    quel giorno più non vi leggemmo avante". (da quel giorno non leggemmo altre pagine".)

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    IL BEL PAESE

    "Il bel paese" è un'espressione poetica usata ancora oggi per indicare l'Italia. Dante la usa nell'Inferno, al Canto 33, quello del terribile racconto del Conte Ugolino, che i Pisani avevano lasciato morire di fame e di sete, e quindi lui, per fame, probabilmente mangiò i suoi figli. Dante condanna i Pisani per questo atto orribile, confrontandoli col "bel paese" dell'Italia:

    Ahi Pisa, vituperio de le genti (Ahimè, Pisa, vergogna dei popoli)
    del bel paese là dove ’l sì suona, (del bel paese (l'Italia) dove risuona il «sì»,)

    "Risuona il sì" significa che Dante confronta l'italiano, che dice "sì", con le lingue francesi d' "oc" (cioè il "sì" della Francia del Nord) e d' "oil" (cioè il "sì" della Provenza della Francia del sud).

    IL BEN DELL'INTELLETTO

    Quando Virgilio, nel Canto 3 dell'Inferno, porta Dante davanti alla porta dell'Inferno, quella con la famosa frase "Lasciate ogni speranza voi ch'entrate", parla del "ben de l'intelletto":

    "Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ho detto (Noi siamo giunti nel luogo dove, come ti ho detto,)
    che tu vedrai le genti dolorose (vedrai le anime dannate)
    c’hanno perduto il ben de l’intelletto". (che hanno perduto la luce dell'intelligenza divina.")

    "Il ben de l'intelletto" è una perifrasi tradizionale per indicare Dio: infatti, solo Dio, il Sommo Bene, può gratificare ed appagare in pieno la ricerca intellettuale dell'uomo. I dannati hanno perso la possibilità di vedere Dio, Verità suprema e il massimo Bene cui tende l'intelletto umano. Hanno peccato perché non si sono lasciati guidare dalla Ragione, che “naturalmente” indirizza l'uomo a Dio. Oggi questo termine si usa per indicare il ragionamento e la lucidità mentale.

    SENZA INFAMIA E SENZA LODE

    Nel Canto 3 dell'Inferno, nell'Antinferno, Dante vede gli Ignavi, cioè coloro che nella vita non fecero nè il bene nè il male: quindi vissero "senza infamia e senza lode". Oggi l'espressione è usata per indicare qualcosa di mediocre.

    Ed elli a me: «Questo misero modo (Lui (Virgilio) mi rispose: «Questa è la misera condizione)
    tegnon l’anime triste di coloro (delle anime tristi di quelli)
    che visser sanza ’nfamia e sanza lodo. (che vissero senza infamia e senza meriti.)

    STAI FRESCO

    Il termine compare nel Canto 32 dell'Inferno, nel Cocito dei traditori (o meglio, nell'Antenora, dove ci sono i traditori della Patria), dove Bocca degli Abati, scoperto da Dante, è costretto a rivelare la presenza di altri dannati come lui, in particolare Buoso da Duera, che, ironia della sorte, aveva tradito in quel momento proprio Bocca, dicendo il suo nome a Dante: una cosa che lui non voleva rivelare. E, per ripicca, Bocca degli Abati svela il nome di Buoso a Dante, e di altri dannati, che "stanno freschi" nel ghiaccio del Cocito.

    "là dove i peccatori stanno freschi"

    Oggi, dire "stai fresco" è molto comune: indica qualcosa che non accadrà mai e lo si dice per disilludere qualcuno. Indica anche qualcosa che andrà a finire male. Per esempio, Stefania non sa fare i dolci: quando si organizza una cena tra amiche e Stefania dice “Porto io il dolce”, tutte quante pensano: “Ah perfetto, stiamo freschi allora!”

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    NON TI CURAR DI LOR, MA GUARDA E PASSA

    E' una famosa frase detta da Virgilio nel 3° Canto dell'Inferno: si riferisce agli Ignavi nell'Antinferno. Sono rifiutati dal Paradiso perchè non hanno mai fatto il bene, e anche dall'Inferno perchè non hanno mai fatto neanche il male. Costoro, che mai hanno vissuto, perché mai hanno scelto, una volta morti devono inseguire un’insegna, straziati dalle punture di mosconi e vespe. Così, loro, che nella vita non hanno mai inseguito un ideale e non avrebbero mai offerto il proprio sangue per qualcosa, ora devono versarlo per i vermi che sono in terra. Virgilio li descrive sbrigativamente, con disprezzo, senza neanche presentare qualcuno di loro a Dante: non sono neanche degni di essere citati.

    "Fama di loro il mondo esser non lassa; ("Il mondo non lascia che ci sia di loro alcun ricordo;)
    misericordia e giustizia li sdegna: (la misericordia e la giustizia divina li sdegnano: )
    non ragioniam di lor, ma guarda e passa". (non perdiamo tempo a parlare di loro, ma dà una rapida occhiata e passa oltre".)

    Oggi si usa quest'espressione per consigliare di non preoccuparsi dell'opinione comune, o delle calunnie e malvagità altrui. Oppure: “non fare caso alla gente, a quello che la gente dice o fa”.

    FERTILE

    Oggi è un termine molto usato, ma si tratta di un latinismo che allora non era ancora diffuso: "fertile", infatti, deriva dal latino "ferre", che significa "portare, produrre": da qui il significato odierno di "fecondo, produttivo". E' stato detto nel Paradiso, al Canto 11, in cui Tommaso d'Aquino descrive la vita di San Francesco, e, tra le altre cose, descrive il luogo di nascita del santo come una "fertile costa": "fertile" perchè, secondo il latinismo, la "costa" del monte Subasio ha "portato" i natali a San Francesco.

    "fertile costa d’alto monte pende", ("digrada la fertile costiera di un alto monte (il Subasio)"

    Questo latinismo ha raggiunto in modo impressionante il linguaggio comune di oggi.

    MOLESTO

    Anche questo è un latinismo: deriva da "molestus", che deriva a sua volta da "moles", "peso, fardello", presente ancor oggi (es: "ho una mole di lavoro da fare!"). Molesto ha attestazioni fin dal 1200, ma è stato certamente Dante a immettere il vocabolo nel giro della lingua letteraria e a decretarne la fortuna. Dante lo usa diverse volte: tre nell'Inferno e, curiosamente, una in Paradiso, e proprio riferita a lui. La prima è pronunciata da Farinata degli Uberti (Canto 10 dell'Inferno), in cui dice che "forse (io) fui troppo molesto", riferendosi al paese di Firenze. La seconda, nel 13° Canto dell'Inferno, nel girone dei Suicidi, è detta da Pier della Vigna, in riferimento al corpo del suicida, che, dopo il Giudizio, sarà per sempre appeso accanto alla propria anima sofferente, tramutata in albero:

    "Qui le trascineremo, e per la mesta ("Li trascineremo qui (le nostre spoglie, cioè i nostri corpi) e per la triste)
    selva saranno i nostri corpi appesi, (selva saranno appesi,)
    ciascuno al prun de l’ombra sua molesta." (ciascuno all'albero della propria ombra nemica".)

    La terza è nel 28° Canto dell'Inferno, in cui Bertran De Born, tra i Seminatori di Discordie, alza la sua testa decapitata (la pena per loro è essere tagliati in continuazione) e dice quanto è "molesta" la sua pena:

    "Or vedi la pena molesta,
    tu che, spirando, vai veggendo i morti:
    vedi s’alcuna è grande come questa."

    Infine, c'è il termine "molesto" in Paradiso, nel Canto 17, in cui Cacciaguida parla di quanto darà fastidio agli uomini la Divina Commedia:

    "Ché se la voce tua sarà molesta ("Infatti la tua voce, se sarà spiacevole)
    nel primo gusto, vital nodrimento (al primo assaggio, poi lascerà un nutrimento vitale)
    lascerà poi, quando sarà digesta." (quando sarà assimilata.")

    Nel passo del Paradiso "molesto" ha il senso di ‘sgradito, aspro’; nei passi dell’Inferno, invece, ha una connotazione decisamente più negativa che si rifà al significato latino di ‘pesante, gravoso, difficile da sopportare’. Il vocabolo continua ad avere una tradizione vitalissima nel corso dei secoli. Oggi molesto significa "irritante", "fastidioso"

    MESTO

    Anche questo è un latinismo: viene da "maestus" che significa “essere triste, addolorato” ed è introdotto per la prima volta da Dante nell’Inferno, dove indica i peccatori, che sono, ovviamente, “mesti”. Abbiamo già fatto cenno a "mesto" nel discorso del suicida Pier della Vigna, che in quel passo parla sia di "mesto" che di "molesto":

    "Qui le trascineremo, e per la mesta ("Li trascineremo qui (le nostre spoglie, cioè i nostri corpi) e per la triste)
    selva saranno i nostri corpi appesi, (selva saranno appesi,)
    ciascuno al prun de l’ombra sua molesta." (ciascuno all'albero della propria ombra nemica".)

    Ma la prima volta che viene usata è nel primo canto dell'Inferno, in cui Dante parla dei dannati dell'Inferno rivolgendosi a Virgilio, dicendo che lui li descrive come "mesti":

    "e color che tu fai cotanto mesti." ("e coloro che descrivi tanto miseri.")

    E pure nel canto 17 dell'Inferno, dove Dante, mentre attende l'arrivo del demone Gerione, va dove si siedono i dannati, cioè la gente mesta: "dove sedea la gente mesta." Tuttavia nel corso dei secoli "mesto" ha avuto un’attenuazione di significato: da addolorato, triste, oggi significa "triste e malinconico".

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    QUISQUILIA

    "Quisquilia" viene anch'esso dal latino e significa "pagliuzza": Dante usa questo termine nel Canto 26 del Paradiso. Adesso significa “bazzecola, inezia, piccolezza”, ossia questioni di poca importanza. Dante descrive come Beatrice riesce ad eliminare ogni “quisquilia” , pagliuzza" dagli occhi del poeta, cioè ogni impurità, per salvarlo.

    "così de li occhi miei ogni quisquilia / fugò Beatrice"

    LASCIATE OGNI SPERANZA VOI CH'ENTRATE

    Questa espressione è divenuta ormai un proverbio. È l’incisione che si trova sulla porta dell’Inferno (Canto 3), il luogo di pena eterna, e oggi è usata come avvertimento ironico, o con tono amaro, a chi sta per entrare in un luogo o in una situazione che potrebbero rivelarsi pericolosi.

    FATTI NON FOSTE A VIVER COME BRUTI

    “Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza” Queste sono le parole che Ulisse rivolge a i suoi compagni nel canto 26 dell’Inferno, chiedendo loro di pensare alla loro origine: in quanto esseri umani, non sono stati creati per vivere come animali, ma per perseguire obiettivi più nobili, come la virtù e la conoscenza. Usa questa frase per convincerli a superare i limiti del mondo allora conosciuto e andare oltre, per scoprire cose nuove. Oggi, l’espressione è utilizzata con lo stesso significato: è un invito a non comportarsi come bestie, ma seguire la virtù e la scienza come grandi ideali.

    NON MI TANGE

    Questa espressione significa “non mi preoccupa, non mi sfiora nemmeno, non mi interessa”, ed è pronunciata da Beatrice, che era discesa nell’Inferno, più precisamente nel Limbo, dove si trova Virgilio, per mandarlo ad aiutare Dante, perduto nella Selva Oscura. Virgilio le chiede come mai non ha avuto timore di scendere in un posto simile, cioè l'Inferno, e lei risponde che, essendo ormai salva, queste brutture dell'Inferno non la possono nè toccare nè impensierire.

    "la vostra miseria non mi tange"

    Ancora oggi, usiamo scherzosamente quest'espressione per indicare qualcosa che ci interessa poco. Per esempio, se tutti sono preoccupati di sapere chi sarà il vincitore della Champions League al momento della finale, io potrei dire che “la cosa non mi tange”, perché non mi interessa molto il calcio.

    IL FIERO PASTO

    Con quest'espressione indichiamo un pasto bestiale, disumano, assurdo. Infatti, Dante la usa in riferimento al pasto del conte Ugolino (Canto 33 dell'Inferno). Questi, in vita, era stato imprigionato in una torre insieme ai suoi figli e nipoti, condannati lì senza né cibo né acqua. Al momento della fame, però, secondo la leggenda, Ugolino mangiò i corpi dei suoi stessi figli e nipoti. Ecco, quindi, il pasto feroce e disumano.

    IL CASO UNICO DELL'ITALIANO: GRAZIE A DANTE, E' UNA LINGUA NATA SPONTANEAMENTE

    Dante


    Per capire il senso del titolo, devo partire un pò da lontano. Il centralismo, il monolitismo statuale e governativo è un'ossessione giacobina: un solo Stato, una sola Nazione, un solo Governo, un solo Esercito, una sola Lingua, una sola Burocrazia, una sola Capitale. E' questo il programma degli ideologi della Rivoluzione Francese, in contrasto radicale coi tradizionali Regni cristiani, che erano policentrici, che rispettavano l'identità, i costumi, le lingue, i privilegi, i sistemi fiscali delle antiche regioni che li componevano. L'unione avveniva, semmai, nella Corona, cioè nella dinastia regnante: un solo re, "padre di tutti i suoi popoli", ciascuno dei quali con la sua autonomia - e lingua - da rispettare.

    E' la Rivoluzione che distrugge questa ricchezza di culture e pretende di tutto governare da Parigi, dalla quale sono inviati nelle province i rappresentanti onnipotenti del governo che Napoleone chiamerà "prefetti". Si dichiara guerra anche, soprattutto, alle lingue locali, imponendo a tutti quella della Capitale dove risiedono i ministeri.

    Qualcuno si è stupito del ritorno di "localismi" contemporaneamente all'avanzare del processo di unificazione europea. Come mai questo, che sembra un anacronismo? Nessuna sorpresa, se si riflette: la riscoperta della propria identità, della propria "piccola patria", è una reazione comprensibile, del tutto prevedibile, di fronte alla prospettiva di vivere in un mondo indifferenziato, senza la rassicurante persistenza delle proprie tradizioni, del sentimento di far parte di una famiglia umana, circoscritta e riconoscibile. Il "mondialismo" è in realtà una condizione disumana, se intesa come omologazione di tutti a tutto e come cancellazione delle differenze.

    Sta di fatto che l'ex-Unione Sovietica si è poi divisa in una serie di repubbliche; la Jugoslavia pure. La Cecoslovacchia (nazione inventata a tavolino, come la Jugoslavia) si è spezzata in due. Il Belgio non esiste praticamente più, se non per una finzione un pò ipocrita, mentre valloni e fiamminghi vivono da separati in casa. La stessa Gran Bretagna, dopo secoli di coabitazione, vede inglesi, scozzesi, gallesi, nordirlandesi organizzati per vie parallele e non più strettamente unite. Persino in Svizzera, pur già da secoli federale, sembra manifestarsi una separazione tra i quattro gruppi linguistici (tedesco, francese, italiano, ladino) che mette in discussione la tradizionale unità, nelle cose essenziali, tra i cantoni confederati. In Francia, madre del centralismo, bretoni, occitani, alsaziani, lorenesi (oltre, ovviamente, ai còrsi) dopo secoli fanno risentire la loro voce contro il rullo accentratore parigino, chiedendo di ritrovare, almeno in parte, l'autonomia perduta.

    Quell'autonomia è stata concessa con sin troppa liberalità dalla Spagna che, anche per reazione contro il monolitismo franchista, si è riorganizzata in modo pluralista. Alle Autonomias, come vengono chiamate le regioni, sono andate molte competenze che già erano di Madrid, polizia compresa. Ma tanta apertura non è bastata: i più di mille morti provocati dal terrorismo basco sono noti a tutti, ma la Catalogna, la Valencia, le Baleari, pur avendo (almeno sinora) rifiutato la voce della violenza, in realtà, giorno dopo giorno, si sforzano di accentuare la distanza dalla Capitale ufficiale, perseguendo un disegno soberanista, cioè di piena sovranità, con un legame solo formale col resto della Spagna. Quasi altrettanto tenace è la Galizia, ma anche territori come la Navarra e l'Andalusia sopportano con fastidio crescente quanto è definito come "castigliano", cioè di Madrid.

    E l'Italia? Bisogna innanzitutto ricordare che il nostro Paese è caratterizzato da una storia che è, in fondo, il contrario della Spagna. Questa ha avuto una precoce formazione come Stato, ma non è mai riuscita a diventare compiutamente una Nazione. Nel 1469, il matrimonio tra Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia crea un'organizzazione che ha ben poco a che fare con gli stati unitari in senso moderno. Soprattutto, nelle varie zone sopravvivono gli idiomi propri e sarà sempre una frustrata illusione castigliana quella di riuscire ad imporre la propria lingua - pur, in certi periodi, diventata obbligatoria per tutti - sradicando catalano, basco, galiziano. Sempre - e ancora oggi, come rivelano tutte le inchieste - ogni cittadino iberico dichiarerà di sentirsi figlio della sua regione storica, prima che "spagnolo". La bandiera ufficiale dello stato non sventola, malgrado la legge lo preveda, accanto a quella "autonoma" a Barcellona, a Valencia, a Bilbao, a Palma di Maiorca.

    Diverso, se non contrario, il destino dell'Italia. Unificata politicamente ben trecento anni dopo la Spagna, da molti secoli aveva già un'unità nazionale, che gli stranieri ben riconoscevano. Nel mondo, già a partire dal Cinquecento, un "italiano" era riconosciuto e indicato come tale, al di là della frammentazione politica della Penisola. Il segreto italico di una storia, malgrado tutto, comune, nonostante le grandi differenze, di un sentimento nazionale diffuso precocemente (almeno tra le classi colte) pur nello spezzettamento sta nella lingua.

    Talvolta si dimentica che, se in Italia si parla italiano, ciò è dovuto alla libera scelta degli uomini di cultura e di governo di ogni angolo di quello che, solo molto tardi, sarebbe divenuto uno Stato. Il francese, lo spagnolo, l'inglese stesso sono stati imposti in modo autoritario a genti che, pur nei confini politici dello stesso Regno, parlavano idiomi diversi. In Italia non ci fu una Parigi, una Madrid, una Londra dove sedesse un Governo che amministrasse con una lingua ufficiale e che con essa imponesse l'insegnamento, oltre che le leggi e i decreti. Da noi, l'idioma comune fu il frutto di una scelta libera: poiché occorreva uno strumento per intendersi tra le varie parti della Penisola, i gruppi politicamente e culturalmente dirigenti finirono coll'accordarsi, prima nei fatti e poi nelle teorie, di letterati e filologi, sulla variante di volgare latino illustrato nel Trecento da una triade sublime: Dante, Petrarca, Boccaccio (e i due sono stati influenzati da Dante)

    E' dunque il dialetto toscano, e in particolare fiorentino, che divenne la koinè, la lingua franca per la comunicazione e poi anche quella per la letteratura prima e poi per la cultura in generale, quando il latino fu abbandonato anche dai dotti,. Lingua "democratica", dunque, l'italiano, nel senso che fu scelto e non imposto, se non dal prestigio di una grande cultura. Ma anche, per molti secoli, lingua "aristocratica", nel senso che fu soprattutto scritto e fu parlato nella vita quotidiana quasi soltanto dai toscani. Manzoni, per il suo gran romanzo, dovette praticamente "inventarsi" una lingua colloquiale (ribadendo la scelta del fiorentino) e neanche l'unificazione politica e la scuola elementare obbligatoria riuscirono ad intaccare del tutto i dialetti.

    In Italia fu proprio l'esistenza di un linguaggio comune, anche se usato solo dai gruppi egemoni e in momenti "alti", che contribuì potentemente a creare una coscienza nazionale, ben prima di istituzioni statuali comuni.

    L'italiano come idioma davvero praticato da tutti, o quasi, anche in àmbito familiare nasce coi mass media moderni: la radio, il cinema sonoro e, soprattutto, la televisione. Va riconosciuto: l'Eiar prima e la Rai poi hanno fatto per la nostra lingua (e, dunque, per il sentimento nazionale) infinitamente di più che una lunga serie di scrittori e di ministri dell'istruzione pubblica.

    L'unità di fondo della Penisola, che è stata per tanti secoli divisa, si è riconosciuta in un linguaggio comune, anche se dotto, sufficiente a legare insieme le varie parti. L'italiano è ormai saldamente installato anche nell'espressione quotidiana della maggioranza dei cittadini. Gli stessi Leghisti di un tempo non potevano usare un'altra lingua: non esiste, per esempio, un "lombardo". Anche tra confinanti bergamaschi e bresciani la comprensione è difficile; e il modo dialettale di parlare di un comasco poco ha a che fare con quello di un mantovano. Ed è così per ogni altra regione italiana, anche di quelle che, essendo isolane, sembrano più "unitarie": i "sardi" sono almeno tre se non quattro e così per i "siciliani". E' praticamente impossibile che avvenga uno smembramento dell'Italia a causa dei vari dialetti: il padre Dante, e con lui gli altri grandi "toscani" con lui, garantiranno sempre che il loro popolo sia, malgrado tutto, unito, pur nelle sue infinite, e preziose, diversità.

    BIBLIOGRAFIA

    Vittorio Messori, articolo su Jesus, Gennaio 2003.

    (Continua qui)

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