Il blog di Joe7


Replying to DIVINA COMMEDIA DI NAGAI E DI DANTE: PARADISO, CANTO 17

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  1. Posted 23/3/2024, 17:38
    PARADISO CANTO 17 - QUINTO CIELO DI MARTE: SPIRITI COMBATTENTI PER LA FEDE - CACCIAGUIDA PROFETIZZA L'ESILIO A DANTE
    (primo post: qui; precedente post: qui)

    DANTE-TOMBA-2
    La tomba di Dante a Ravenna. E' posta presso la Basilica di San Francesco. E' un monumento nazionale, e attorno ad essa è stata istituita una zona di rispetto e di silenzio, chiamata "zona dantesca". Sul letto di morte, il 13-14 Settembre 1321, Dante volle essere vestito col saio francescano e scelse come luogo di sepoltura il convento dei Frati Minori. A destra della tomba c'è una colonnina di alabastro del Carso, con una ghirlanda d'argento donata dalla città di Fiume: regge un'ampolla argentea donata nel 1908 dalle città di Trieste, Trento, Gorizia e dalle provincie dell'Istria e della Dalmazia, territori a maggioranza italiana: italiani che conobbero, dopo la Seconda guerra Mondiale, la terribile deportazione comunista e l'atroce morte delle foibe. Sul soffitto arde perennemente una lampada votiva, alimentata dall'olio d'oliva dei colli toscani, offerto da Firenze ogni anno, la seconda domenica di Settembre, in memoria dell'anniversario della morte del poeta.


    DANTE CHIEDE A CACCIAGUIDA NOTIZIE SULLA SUA VITA FUTURA

    Qui Dante si paragona al mito di Fetonte: era il figlio di Apollo e Climene. Un giorno, Fetonte fu deriso dal compagno Epafo, che non credeva che lui fosse davvero figlio di Apollo. Fetonte, allora, si rivolse alla madre Climene, per avere rassicurazioni. Lei gli confermò che era davvero il figlio di Apollo, il dio che trasporta ogni giorno il Sole sul carro. In seguito, lo stesso Apollo, per confermare la sua paternità, permise al figlio Fetonte di guidare il carro del Sole per un giorno. Ma lui non riuscì a dominare i cavalli e combinò dei disastri tali che fu fulminato da Giove e cadde nel fiume Eridano, dove morì annegato. Per questo, Fetonte, come dirà Dante, è esempio di come i padri debbano essere "scarsi", cioè non condiscendenti, coi figli.

    FETONTE
    La caduta di Fetonte


    Qual venne a Climené, per accertarsi (Come colui (Fetonte) che andò dalla madre Climene per avere rassicurazioni,)
    di ciò ch’avea incontro a sé udito, (su quanto aveva udito contro di sé)
    quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi; (che ancora oggi induce i padri a non essere condiscendenti,)

    tal era io, e tal era sentito (così ero io, e così ero percepito)
    e da Beatrice e da la santa lampa (sia da Beatrice sia dalla santa luce (Cacciaguida)
    che pria per me avea mutato sito. (che prima aveva cambiato posizione (si era spostato dalla luminosa Croce del Cielo di Marte) per me.)

    Beatrice invita Dante a manifestare il suo pensiero: non perché le anime non possano conoscerli, ma affinché il poeta si abitui a esprimerli liberamente con la sua bocca, così che i suoi desideri vengano esauditi. Dante si rivolge allora a Cacciaguida, chiamandolo "O cara piota mia che t'insusi": "piota" vuol dire "pianta del piede", quindi, per estensione, "radice", "avo"; "t'insusi" significa "t'innalzi": è un neologismo (parola inventata) dantesco. E gli dice che Cacciaguida si innalza a tal punto che, come le menti terrene vedono che in un triangolo non possono esserci due angoli ottusi (cosa geometricamente impossibile), così lui, Cacciaguida, vede le cose contingenti (cioè gli avvenimenti) prima che accadano, perchè osserva nella mente di Dio, in cui tutto è un eterno presente.

    Ebbene, il suo avo certamente sa che lui, guidato da Virgilio, aveva sentito, sia all'Inferno che in Purgatorio, delle oscure profezie sul suo conto (quelle sull'esilio), per cui il poeta vorrebbe avere maggiori ragguagli sul destino ("fortuna") che lo aspetta. Infatti, anche se lui è preparato ai colpi della sorte...una sciagura prevista è più facile da affrontare di una imprevista: "saetta previsa vien più lenta", cioè "una freccia prevista arriva più lentamente". Dante, in questo modo, obbedisce a Beatrice e rivela ogni suo dubbio all'anima del suo antenato.

    CACCIAGUIDA PARLA CHIARO

    Cacciaguida risponde splendendo nella sua luce, con un discorso chiaro e perfettamente comprensibile: e non con parole tortuose e oscure ("ambage") tipiche degli oracoli dei pagani ("la gente folle") dei tempi prima della crocifissione di Gesù Cristo.

    Né per ambage, in che la gente folle (non con parole tortuose, in cui i pagani)
    già s’inviscava pria che fosse anciso (si invischiavano ben prima che fosse crocifisso)
    l’Agnel di Dio che le peccata tolle, (l'Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo (Cristo) (curiosamente, questo è il 33° verso di questo Canto: e la vita di Cristo, tradizionalmente, è stata di 33 anni)

    ma per chiare parole e con preciso (ma con parole chiare e con un limpido)
    latin rispuose quello amor paterno, (discorso mi rispose quel padre amorevole) (nota: qui il latino non c'entra: Cacciaguida non sta parlando in latino, ma in toscano antico)
    chiuso e parvente del suo proprio riso (avvolto e splendente nella luce del suo sorriso)

    CENNI DI CACCIAGUIDA ALLA PRESCIENZA DIVINA

    Prima di rispondere, Cacciaguida spiega che il suo leggere il futuro non è leggere quello che dovrà necessariamente accadere perchè così "è scritto": quello che accadrà sarà sempre frutto della libera scelta dell'uomo. E Dio ha già tutto - passato, presente, futuro - davanti a Sè, e di questa visione ha parte Cacciaguida: ma non è come uno che dice cosa accadrà, come fa per esempio il regista di un film, che usa i personaggi come vuole lui. Piuttosto, Dio vede quello che accadrà per la libera scelta degli uomini. E' il mistero dell'Onnipotenza divina e della libertà umana, che si incontrano.

    "La contingenza, che fuor del quaderno ("Gli eventi contingenti (cioè quelli che accadono), che al di fuori dell'estensione)
    de la vostra matera non si stende, (del vostro mondo terreno non si estendono,) (cioè: gli eventi futuri, che non si possono prevedere)
    tutta è dipinta nel cospetto etterno: (sono tutti dipinti nella mente di Dio:)

    necessità però quindi non prende (essi però non sono per questo necessari,) (cioè: non sono eventi che devono obbligatoriamente accadere)
    se non come dal viso in che si specchia (come non lo è il fatto che solo perché qualcuno la osserva)
    nave che per torrente giù discende. (una barca scenda la corrente.) (cioè: l'osservatore osserva la barca che va, ma la barca non va perchè la vede l'osservatore. Va per conto suo, l'osservatore la vede soltanto)

    Da indi, sì come viene ad orecchia (Da lì (dalla mente divina) come viene all'orecchio)
    dolce armonia da organo, mi viene (la dolce armonia di un organo, viene a me)
    a vista il tempo che ti s’apparecchia. (la vista del tempo (futuro) che si prepara per te.)

    Il beato spiega, insomma, che tutti i fatti contingenti, presenti e futuri, sono già scritti nella mente divina: il che non implica che debbano accadere necessariamente, come l'occhio che osserva una nave scendere la corrente di un fiume sa che questo avverrà, ma non lo rende per ciò inevitabile. Allo stesso modo, spiega Cacciaguida, egli prevede il tempo futuro di Dante, come la dolce musica di un organo giunge alle orecchie umane.

    L'ESILIO DI DANTE

    Dante, profetizza l'avo, dovrà abbandonare Firenze, allo stesso modo in cui Ippolito dovette partire da Atene per la malvagità della sua matrigna Fedra. Cacciaguida fa riferimento al mito di Ippolito, figlio di Teseo, che respinse le profferte amorose della matrigna Fedra e fu da lei accusato di fronte al padre di averla violentata. Questi credette alla moglie e cacciò ingiustamente il figlio da Atene. E' probabile che qui Dante paragoni Firenze a Fedra, indicandola cioè come città «matrigna».

    IPPOLITO-E-FEDRA
    Ippolito accusato da Fedra, accanto alla quale è seduto il marito Teseo. Ippolito nega l'accusa, ma la condanna è inevitabile. Fedra ha in mano una spada, segno del suo suicidio: infatti si ucciderà come "prova" della verità di quello che ha detto.


    Il complotto dell'esilio è già in corso (il personaggio di Dante nella Commedia non è ancora stato esiliato, a differenza del Dante reale), nella Curia dove "ogni giorno si mercanteggia Cristo" (cioè le cose sacre). Gli uomini di Chiesa avevano infatti complottato per favorire la presa del potere dei Guelfi Neri a Firenze. Non è necessario pensare che Dante attribuisca direttamente a papa Bonifacio VIII la volontà di esiliarlo, dai versi qui sotto:

    e tosto verrà fatto a chi ciò pensa (e questo sarà presto compiuto, da chi pensa a ciò)
    là dove Cristo tutto dì si merca. (là (nella Chiesa) dove si mercifica Cristo (le cose sacre) ogni giorno.)

    Come si vede, non si fa cenno al Papa, ma solo alla Curia e agli uomini di Chiesa, anche se un riferimento in tal senso non si può escludere del tutto. La colpa dell'esilio sarà poi imputata ai vinti, così come di solito avviene (la storia è sempre raccontata dai vincitori): Dante, infatti, ufficialmente sarà esiliato per punizione per aver fatto degli atti di corruzione. Ma ben presto la punizione divina verso i Fiorentini dimostrerà la verità dei fatti (infatti, tutti oggi sanno che Dante fu ingannato). Dante, tuttavia, dovrà lasciare ogni cosa più amata, e questo costituirà la prima pena dell'esilio:

    Tu lascerai ogne cosa diletta (Tu lascerai ogni cosa che ami)
    più caramente; e questo è quello strale (di più; e questa è la pena)
    che l’arco de lo essilio pria saetta. (che l'esilio fa provare per prima.)

    Successivamente, Dante proverà com'è duro accettare il "pane altrui", mettendosi al servizio di vari Signori:

    Tu proverai sì come sa di sale (Tu proverai come è amaro)
    lo pane altrui, e come è duro calle (il pane altrui, e come è duro)
    lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale. (salire e scendere le scale altrui (accettare l'aiuto dei potenti).

    Ciò che gli sarà più fastidioso sarà la compagnia di altri esuli come lui ("compagnia malvagia e scempia", cioè folle). Infatti, diventeranno tutti ingrati, stupidi e ingiusti ("compagnia...tutta ingrata, tutta matta ed empia") contro il poeta. Ma, poco dopo, saranno loro, e non Dante, ad avere le "tempie rosse di sangue e di vergogna": quello che accadrà dimostrerà infatti la loro follia. Cosicché, conclude Cacciaguida, sarà stato un bene, per Dante, essersene separato.

    Dante qui fa riferimento alla battaglia della Lastra (località vicino a Firenze): laggiù, il 29 luglio 1304, i fuoriusciti fiorentini di parte Bianca, come Dante, vi si radunarono, tentando di rientrare a Firenze con le armi. Ma il tentativo fallì miseramente. Dante non aveva preso parte alla battaglia.

    PROFEZIE SU CANGRANDE DELLA SCALA

    CANGRANDE
    Statua equestre di Cangrande della Scala, signore scaligero di Verona, condottiero e mecenate. Oltre a Dante, ospitò anche Giotto.


    Dante troverà anzitutto rifugio a Verona, sotto la protezione di Bartolomeo Della Scala ("il gran lombardo"), che, sullo stemma della casata, reca l'aquila imperiale ("il santo uccello"). Egli sarà così benevolo verso il poeta che gli concederà i suoi favori senza bisogno di ricevere richieste.

    A Verona, Dante vedrà il fratello minore di Bartolomeo, Cangrande della Scala1, che alla nascita è stato fortemente influenzato dal pianeta Marte ("questa stella forte": ricordiamo che siamo sempre nel Cielo di Marte), così che le sue imprese saranno straordinarie. Nessuno se n'è ancora accorto, perché è ancora molto giovane, avendo egli solo nove anni (ai tempi in cui Dante scrive la Commedia Cangrande era già adulto: ma nel Canto Dante ambienta tutto nel 1300, circa dieci o quindici anni prima, quando Cangrande aveva ancora nove anni).

    Ma prima che papa Clemente V, chiamato "il Guasco" cioè "il guascone" perchè francese, inganni Arrigo VII di Lussemburgo,2 il valore di Cangrande risplenderà chiaramente, mostrando la sua noncuranza per il denaro e gli affanni.

    Le sue gesta saranno così illustri che i suoi nemici non potranno tacerle: quindi Dante dovrà attendere il suo aiuto e i suoi favori, dal momento che Cangrande ha generosamente mutato le condizioni di molte persone, trasformando i mendicanti in ricchi e viceversa. Cacciaguida aggiunge altri dettagli relativi alle future imprese di Cangrande, imponendo però il silenzio a Dante, che ascolta incredulo quanto riferito dall'avo. Cacciaguida conclude dicendo a Dante che non dovrà serbare rancore verso i suoi concittadini, poiché la vita di Dante è destinata a durare ben oltre la punizione che li colpirà.

    DUBBI DI DANTE

    Dopo che Cacciaguida ha terminato di parlare, Dante torna a rivolgersi a lui, in quanto desidera ricevere una spiegazione e un conforto, certo di trovarsi di fronte a un'anima sapiente, virtuosa e amorevole. Dante dichiara di rendersi conto che lo aspettano aspre vicissitudini, per cui, pensa, è bene che sia previdente e che non si precluda il possibile rifugio in altre città a causa dei suoi versi, visto che dovrà lasciare Firenze. Infatti, all'Inferno ("lo mondo sanza fine amaro" cioè "il mondo infinitamente amaro"), in Purgatorio e in Paradiso lui ha visto cose che, se riferite dettagliatamente, suoneranno sgradevoli a molti. Tuttavia, se egli non dirà tutta la verità della visione, teme di non ottenere la fama destinata a renderlo famoso presso le generazioni future. Cosa devo fare, chiede Dante: scrivere o no queste cose?

    LA MISSIONE POETICA DI DANTE

    La luce che avvolge Cacciaguida risplende come uno specchio d'oro colpito dal sole: poi l'avo risponde, dicendo che i lettori con la coscienza sporca per i peccati propri o di altri proveranno fastidio per le sue parole: e tuttavia egli dovrà rimuovere ogni menzogna e rivelare tutto ciò che ha visto nel viaggio ultraterreno, lasciando che "chi ha la rogna si gratti":

    indi rispuose: «Coscienza fusca (poi rispose: «Una coscienza sporca)
    o de la propria o de l’altrui vergogna (per la colpa propria o di altri)
    pur sentirà la tua parola brusca. (sentirà certo le tue parole come sgradevoli.)

    Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, (Tuttavia, rimossa ogni menzogna,)
    tutta tua vision fa manifesta; (rendi manifesto tutto ciò che hai visto,)
    e lascia pur grattar dov’è la rogna (e lascia pure che chi ha la rogna si gratti.) (che chi ha colpa ne paghi le conseguenze)

    Infatti, i suoi versi saranno sgradevoli all'inizio, ma, una volta digeriti, saranno un nutrimento vitale per le anime. Questo tuo canto, questa tua Divina Commedia, dice Cacciaguida, sarà un grido, sarà come un vento che colpisce più forte le cime più alte (cioè i più orgogliosi), e questo è motivo di grande onore. Per questo, nei tre regni dell'Oltretomba gli sono state mostrate solo le anime note, le più famose: il lettore infatti non farebbe attenzione ad esempi e personaggi poco noti, né ad argomenti che non fossero già evidenti di per sé.

    Questo tuo grido farà come vento, (Questo tuo grido sarà come un vento)
    che le più alte cime più percuote; (che colpisce di più le cime più alte,)
    e ciò non fa d’onor poco argomento. (e ciò non è motivo di poco onore.)

    Però ti son mostrate in queste rote, (Perciò ti sono mostrate in questi Cieli,)
    nel monte e ne la valle dolorosa (in Purgatorio e nella dolorosa valle dell'Inferno)
    pur l’anime che son di fama note, (solo le anime che sono molto famose,)

    che l’animo di quel ch’ode, non posa (poiché l'animo di colui che ascolta)
    né ferma fede per essempro ch’aia (non dà retta e non presta fede a un esempio)
    la sua radice incognita e ascosa, (che abbia la sua radice nascosta e sconosciuta, (a esempi non noti)

    né per altro argomento che non paia». (né a un altro argomento che non sia di tutta evidenza».)

    COMMENTO

    Questo Canto chiude il "trittico" dedicato all'incontro con l'avo Cacciaguida e alla definizione della missione poetica di Dante. Firenze è ancora al centro di questo Canto, perchè Dante chiede all'avo delle spiegazioni circa l'esilio che gli è stato più volte preannunciato nel corso del viaggio ultraterreno. È molto evidente poi il parallelismo, come nel Canto 15 del Paradiso, fra Dante ed Enea, che incontra il padre Anchise nel libro VI dell'Eneide, in quanto Cacciaguida profetizza a Dante l'esilio e lo investe dell'alta missione poetica che gli ha affidato la Provvidenza: proprio come Anchise preannunciava al figlio le guerre che lo attendevano nel Lazio e la missione provvidenziale della fondazione di Lavinio, da cui avrebbe avuto origine la stirpe romana. La stessa rassegna delle antiche famiglie di Firenze nel Canto 16 si rifaceva alla presentazione da parte di Anchise dei futuri eroi di Roma.

    In questo Canto, invece, tutto è incentrato su Dante, destinato a lasciare la sua città, in seguito alle vicende politiche del 1301-1302 e, come esule sconfitto politicamente, ad adempiere all'altissimo incarico di cui è investito. Il discorso di Cacciaguida è chiaro e privo di ambiguità, diverso dunque dalle velate allusioni di personaggi come Farinata, Brunetto Latini e Oderisi da Gubbio, che avevano predetto l'esilio in modo oscuro, ma diverso anche dai responsi oracolari degli dèi pagani, che si prestavano a doppie interpretazioni (il riferimento è anche alla Sibilla cumana, che Enea incontra nel suo antro e alla quale chiede espressamente una profezia, prima di compiere la discesa agli Inferi dietro la sua guida).

    Cacciaguida predice a Dante le amarezze e le sofferenze del suo girovagare di città in città, accusato di falsi crimini dai suoi ex-concittadini e in contrasto persino con gli altri fuorusciti suoi "colleghi", destinati ad essere sconfitti nella battaglia della Lastra. Costretto poi a mendicare il pane dai Signori, che gli offriranno protezione e rifugio. Tra questi spiccano naturalmente gli Scaligeri di Verona, soprattutto quel Cangrande che sarà il principale protettore del poeta e al quale Dante dedicherà proprio il Paradiso, indirizzandogli anche la famosa e discussa Epistola XIII3 che sarà fondamentale per l'interpretazione del poema.

    EPISTOLE
    Le "Epistole", cioè le lettere di Dante. Si tratta di tredici lettere in tutto, nelle quali Dante scrive (in latino) a diversi interlocutori, durante i suoi vent'anni di esilio.


    Cangrande si colloca al centro della profezia dell'esilio, in quanto Cacciaguida ne traccia un piccolo panegirico e lo presenta come personaggio destinato a grandi imprese, che mostrerà il suo valore militare e politico disdegnando le ricchezze e soprattutto tenterà di ristabilire l'autorità imperiale in Italia del Nord. Naturalmente questo resterà un sogno mai realizzato: ma l'attesa fiduciosa di un personaggio in grado di porre fine ai soprusi e alle ingiustizie politiche attraversa vivissima l'intero poema ed è lo sprone che induce Dante a compiere la sua missione poetica fino in fondo, senza mostrare mai il minimo cedimento o timore.

    Questa missione è poi solennemente dichiarata da Cacciaguida a Dante nella seconda parte del Canto, dopo che il poeta ha espresso i suoi dubbi che nascono proprio dalla profezia dell'esilio, delineatasi finalmente con chiarezza. Dante sa che è chiamato dalla Provvidenza a rivelare tutto ciò che ha visto nel corso del viaggio, ma sa anche che i suoi versi riusciranno sgraditi a molti, e quindi teme di precludersi possibili aiuti e protezioni, se dirà tutta la verità. Rischiando però, con l'autocensura, di scrivere un'opera di poco conto e quindi di non ottenere la fama imperitura.

    La risposta di Cacciaguida è tale da non lasciare incertezze ed è una chiara esortazione a non essere "timido amico della verità" ("s’io al vero son timido amico"), poiché proprio questo è il compito di Dante: nei tre luoghi dell'Oltretomba gli sono stati mostrati degli esempi di anime dannate o salvate, secondo il criterio della notorietà, poiché solo attraverso personaggi conosciuti il lettore ne sarà colpito al punto di modificare la sua condotta. Dunque sarebbe una grave mancanza da parte di Dante omettere qualche particolare della «visione» o tacere i nomi di quei personaggi da cui potrebbe attendersi ostilità o ritorsioni.

    Il valore del poema è allora soprattutto quello di un'alta denuncia contro i mali del tempo, che sono legati all'assenza di un'autorità centrale in grado di garantire le leggi, alla corruzione diffusa capillarmente nella Chiesa, più in generale all'avidità di guadagno che è dovuta alla diffusione del denaro.

    Il discorso di Cacciaguida è perciò stilisticamente solenne, ma non rinuncia talvolta ad espressioni crude e di immediata evidenza, come la frase "lascia pur grattar dov'è la rogna", che rende bene l'idea della missione affidata a Dante: quella cioè di dire la verità, anche quando questa suonerà sgradevole alle orecchie dei potenti (anzi, nel Canto 27 del Paradiso, San Pietro userà parole ancora più dure contro Bonifacio VIII, colpevole di aver trasformato il Vaticano in una cloaca / del sangue e de la puzza). Del resto, la voce del poeta sarà simile a un vento che colpirà maggiormente proprio le cime più alte, ovvero i personaggi più illustri del tempo, che erano più di altri responsabili della decadenza morale e politica dell'Italia, per cui solo in tal modo Dante potrà legittimamente aspettarsi la fama eterna dal poema sacro al quale, come lui stesso dirà, hanno cooperato Cielo e Terra.

    Infatti, Dante, nella Commedia mostra dei casi clamorosi e inattesi di personaggi dannati all'Inferno (si pensi a Guido da Montefeltro, a Branca Doria che addirittura include fra i traditori degli ospiti di Cocito quand'era ancora vivo) e altrettanti esempi di salvezze imprevedibili in Purgatorio (Catone, Manfredi) e in Paradiso (Traiano, Rifeo, di cui parleremo più avanti), il cui scopo ultimo è affermare l'infallibilità della giustizia divina, anche al di là delle capacità di comprensione umana.

    L'episodio di Cacciaguida si colloca dunque al centro esatto della Cantica e del poema in ragione dell'alto valore morale di questa investitura, che è poi la spiegazione essenziale del successo della Commedia destinato a durare assai più della breve vita del suo autore. La differenza tra quest'opera e le scialbe descrizioni dell'Oltretomba di scrittori precedenti non è solo nella novità della rappresentazione, ma soprattutto nel coraggio della denuncia contro i mali religiosi, politici, sociali del mondo del suo tempo, che acquista tanto maggior rilievo quando si pensi alle oggettive difficoltà di Dante, bandito in esilio dalla sua città, costretto a elemosinare l'aiuto dei potenti, esposto alle possibili vendette dei suoi nemici vecchi e nuovi, (una cosa poco considerata dagli storici e analisti) e nonostante tutto, privo di dubbi nel portare a termine quella che considerava una missione irrinunciabile. Questo dimostra in Dante una coscienza morale e un coraggio non comuni.

    DANTE EXUL IMMERITUS: IL CONTRASTATO RAPPORTO CON FIRENZE

    ESILIO
    Dante in esilio: questo stato di sofferenza del poeta durerà circa vent'anni, fino alla sua morte a Ravenna.


    Sappiamo che, in seguito all'esilio che gli impedì di rientrare a Firenze dal 1302, Dante fu costretto a lunghe peregrinazioni in giro per l'Italia del Nord, che lo portarono a contatto con una realtà politica ben più ampia di quella municipale che aveva vissuto sino a quel momento e ampliarono di molto la sua visione culturale: forse concepì la Commedia anche come un mezzo per affermare la sua grandezza, a dispetto dell'esilio ingiustamente patito: quindi si può dire che, grazie a quel destino, Dante divenne il grande poeta oggi celebrato.

    Sicuramente egli visse il bando dalla sua città come una ferita mai rimarginata, sperando fino all'ultimo di potervi rientrare e, al tempo stesso, nutrendo un forte rancore per i suoi avversari politici che lo avevano esiliato: c'era anche l'accusa infamante (e pare del tutto infondata) di baratteria, cioè di corruzione in atti di governo, che portò alla condanna a morte del poeta e dei suoi figli, nonché alla confisca di tutti i loro beni.

    Si può ben capire la triste condizione dello scrittore, costretto a mettersi al servizio dei signori potenti, a provare come sa di sale / lo pane altrui e a umiliarsi, senza tuttavia mai derogare dalla sua altissima dirittura morale; prova ne sia il fatto che, nonostante la nostalgia della patria lontana e le oggettive difficoltà, Dante non rinunciò mai ad attaccare nelle sue opere le malefatte dei potenti del suo tempo, ai quali certamente la sua parola doveva sembrare brusca come profetizzato dall'avo Cacciaguida.

    Il rapporto di Dante con Firenze fu sempre di amore-odio, dal momento che nella Commedia Dante si scaglia spesso, con forza e sarcasmo, contro i costumi politicamente e moralmente corrotti della sua città (per esempio: Inferno, Canto 26; o Purgatorio, Canto 6), mentre in altri momenti sembra struggersi nel ricordo del luogo che lo ha visto nascere e in cui desidera tornare (per esempio: Paradiso, Canto 25, che vedremo più avanti, in cui Firenze diventa "il bello ovile dove ha dormito agnello e fuori dal quale lo chiudono i lupi che fanno guerra alla città", cioè i suoi avversari politici).

    A Firenze Dante avrebbe voluto rientrare anche per "prendere cappello", cioè ottenere quell'incoronazione poetica cui legittimamente aspirava e che avrebbe potuto ricevere anche a Bologna nel 1320, se avesse accettato l'invito del professore di retorica Giovanni del Virgilio a recarsi in quella città (Dante morì l'anno dopo: forse sentiva che era ormai troppo tardi).

    Dante avrebbe potuto rientrare a Firenze nel 1315, approfittando dell'amnistia che il governo dei Guelfi Neri concesse a tutti i fuorusciti, a condizioni però che Dante giudicò assolutamente inaccettabili. Infatti, Dante avrebbe dovuto ammettere pubblicamente l'accusa di baratteria (corruzione) che gli veniva rivolta. Al posto della pena di morte, avrebbe dovuto solo pagare una multa e trascorrere una notte in carcere. Così avrebbe potuto rientrare in possesso di parte dei suoi beni e porre fine alla sua vita girovaga. Ma è fin troppo evidente che in questo modo i Guelfi Neri ne sarebbero usciti puliti e Dante sarebbe diventato il vero colpevole: era questo il vero motivo dell'"amnistia". Quindi Dante non poteva accettare una simile imposizione: avrebbe significato venir meno alla sua coerenza morale e scendere a patti con coloro che lo avevano ingiustamente allontanato. E, soprattutto, avrebbe dovuto riconoscere una colpa che non aveva commesso. Un prezzo davvero troppo alto da pagare per chi, fino a quel momento, si era distinto come "cantor rectitudinis", cioè "cantore della rettitudine", attraverso le pagine del poema che da anni circolava già nelle città italiane. Non poteva certo farsi passare ingiustamente per intrallazzone, corruttore e bustarellaro, solo per poter tornare a casa.

    Il "gran rifiuto" di Dante acquista maggior rilievo se si pensa che, dopo la morte di Arrigo VII di Lussemburgo nel 1313, quella era davvero l'ultima opportunità per Dante di rimettere piede a Firenze: lui stesso ne era cosciente e la sua fermezza nel rinunciare a tale possibilità è la migliore testimonianza del suo rigore inflessibile, nonché della sua caparbietà nel tenere fede ai propri principi. Ne è una testimonianza l'Epistola XII a un amico fiorentino, forse un interlocutore reale, che lo sollecitava a rientrare lo stesso a Firenze, approfittando dell'amnistia. Dante gli risponde con cortesia, riguardo all'intercessione dell'amico, ma con sdegno nei confronti dei suoi oppositori politici: il passo è rimasto famoso e ha consegnato alle generazioni future l'immagine dell'altera e sdegnosa dignità del poeta, che nei documenti si definiva florentinus natione non moribus, cioè: "fiorentino di origine, ma non nei costumi". Ecco le sue parole riguardo all'infamante condono di cui avrebbe potuto usufruire:

    «È proprio questo il "grazioso proscioglimento" con cui è richiamato in patria Dante Alighieri (qui parla di sè in terza persona), che per quasi tre lustri (15 anni) ha sofferto l'esilio? Questo avrebbe meritato l'innocenza sua, a tutti manifesta? Questo ha meritato il sudore e l'assidua fatica nello studio? Stia lontana da un uomo familiare con la filosofia una così avvilente bassezza d'animo, tale da sopportare di farsi trattare come un carcerato, come di un Ciolo (Ciolo degli Abati, un malfattore fiorentino, che però ebbe l'amnistia) e di altri infami! Stia lontano da me il fatto di un uomo che predica la giustizia e che, dopo aver patito un ingiusto oltraggio, paghi addirittura il suo denaro a quegli stessi che lo hanno oltraggiato, come se lo meritassero! Non è questa, padre mio (è una forma di rispetto verso l'amico), la via del ritorno in patria. Ma, se un'altra via prima o poi, da voi o da altri, verrà mai trovata, una via che però non deroghi alla fama e all'onore di Dante, allora l'accetterò a passi non lenti. Ma, se per nessuna onorevole via si potrà tornare a Firenze...allora io a Firenze non entrerò mai. E che? Forse che non potrò vedere dovunque la luce del sole o degli astri? O forse che dovunque non potrò sotto il cielo indagare le dolcissime verità, senza che per questo io debba tornare in modo abietto e ignominioso al popolo e alla città di Firenze? E certamente non mi mancherà il pane.»

    Col rifiuto di Dante, il 15 ottobre 1315 a Firenze fu confermata la condanna a morte, non solo per il poeta, ma anche per i suoi figli. Dopo la morte di Dante nel 1321 a Ravenna, furono fatti diversi tentativi dai Fiorentini per traslare i suoi resti nella chiesa monumentale di Santa Croce: nessuno dei quali però andò a buon fine, nemmeno quello ad opera di papa Leone X nel primo Cinquecento, perchè furono i Ravennati ad opporsi.

    IL TALENTO PERSONALE E' UN DONO AL SERVIZIO DI TUTTI

    Dante, con la rivelazione dell'esilio, si trova davanti al grande dilemma della vita, che in qualche modo, prima o poi, blocca tutti noi: dovremmo scegliere in base alla convenienza economica (per Dante era trovare ospitalità presso i signori), oppure in base al servizio di tutta la comunità? Dovremmo scegliere per la felicità nostra o per quella degli altri?

    Cacciaguida non ha dubbi al riguardo, come abbiamo visto: le coscienze sporche saranno infastidite dalle parole di Dante, ma la verità, di sapore sgradevole quando è appena assaporata, diverrà poi nutrimento vitale, quando sarà digerita.

    Il poeta ha visto nell’aldilà delle anime di personaggi noti, perché gli uomini sono soliti prestare attenzione soltanto alla fama delle persone. Colpisce la fine psicologia del poeta, che, attraverso la figura del trisavolo, ci spiega perché il Cielo abbia offerto alla vista del Fiorentino soprattutto personaggi illustri. Dante non si scandalizza del fatto che l’uomo riservi attenzione solo alle persone famose. È un tratto tipico dell’uomo, e lo scrittore se ne avvale proprio per diffondere la verità. I rètori si sono sempre giovati di esempi noti per catturare il favore del pubblico. Fin dalla più tenera età, i bimbi si muovono per imitazione degli adulti che hanno dinanzi a sé e poi, con la crescita, diventano grandi attraverso dei modelli e maestri. Colpisce una volta ancora il linguaggio fortemente concreto in un contesto etereo come quello delle anime splendenti e luccicanti del Paradiso. Cacciaguida ricorre più volte al campo semantico del cibo e, in particolare, anche all’ambito della digestione, che appartiene di solito ad un registro basso della letteratura.

    Nell’antichità, tutto quanto riguardava il sesso e la digestione era riservato al genere più basso, ovvero alla commedia, e non poteva essere trattato in forma alta. La rivoluzione del linguaggio dantesco è grande: se, nella vita di san Francesco, Dante aveva utilizzato il lessico erotico per parlare dell’amore tra il santo e Madonna povertà, ora il poeta affronta addirittura il tema della verità, proprio nel canto centrale del Paradiso, con una terminologia che appartiene di suo ad un campo corporeo e materiale: «gusto», «vital nodrimento», «digesta», «grattar», «rogna». Come a dire che la verità non è un discorso o un pensiero, ma si è incarnata nella storia ed ogni volta deve diventare carne per ciascuno di noi, perché possa essere capita. La verità è la realtà: non è una dottrina filosofica.

    Si noti pure come il gioco allitterante della “r” nell’espressione «lascia pur grattar dov’è la rogna» sia il correlato stilistico del fastidio provocato dalla verità. La risposta di Cacciaguida a Dante è di particolare attualità ai giorni nostri, quando sempre più spesso sentiamo parlare di passioni, ma raramente qualcuno ci sprona a scoprire i nostri talenti e a perseguirli. Siamo, infatti, immersi in una società in cui sembra che pochi li possiedano. Invece, come il Vangelo ci ricorda, ciascuno di noi ha almeno un talento. Possederne anche uno solo, ma scoprirlo e farlo fruttare, produce molto di più che avere tanti talenti, ma tenerli nascosti, cioè non usarli mai. Per esempio, se sai disegnare e non disegni, sprechi i tuoi talenti; se sai cantare e non canti, sprechi i tuoi talenti; se sai amare e non ami, sprechi i tuoi talenti, e si potrebbe continuare all'infinito con questi esempi.

    Scegliere partendo da una domanda su di sé e sulla propria felicità spalanca nella vita attese e prospettive insospettate. La risposta alla vocazione (non necessariamente religiosa: le vocazioni sono infinite) è una responsabilità, di fronte a se stessi e agli altri. La vocazione non è, quindi, un’ "illuminazione interiore", ma una chiamata, in cui si deve operare in un certo ambito, come fa Dante. Si potrebbe dire che là dove siamo, là dove lavoriamo, noi tutti siamo chiamati a portare testimonianza della verità che abbiamo incontrato nella vita. Alla faccia dell'attuale boom dei manga "isekai" dove il protagonista muore e si trova in un altro mondo dove si diverte e fa l'eroe. La vita vera si fa qui, non da un'altra parte. Con una nota espressione sintetica di sant’Ignazio da Loyola, potremmo anche dire: «Agisci come se tutto dipendesse da te, sapendo poi che in realtà tutto dipende da Dio».

    BIBLIOGRAFIA

    https://divinacommedia.weebly.com/paradiso-canto-xvii.html

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    1 Cangrande della Scala. Signore di Verona (1291-1329), Per le sue imprese militari e la sua espansione territoriale fu nominato capitano generale della Lega Ghibellina (1318), venendo scomunicato nel 1320 da papa Giovanni XXII. Prima della scomunica, nel periodo 1313-1318 Dante fu al suo servizio, svolgendo per suo conto varie missioni diplomatiche e dedicandogli tra l'altro il Paradiso (a lui è indirizzata una lettera famosa, detta Epistola XIII, dove il poeta fornisce preziose indicazioni per l'interpretazione di tutto il poema). La figura di Cangrande è generalmente accostata a quella del «veltro», il misterioso personaggio evocato da Virgilio nella profezia dell'Inferno (Canto 1), dove si dice che costui sarà destinato a cacciare la lupa/avarizia dall'Italia e a ristabilire la giustizia (il verso: "e sua nazion sarà tra feltro e feltro" è stato interpretato come allusione proprio al dominio di Cangrande, che si estendeva pressappoco tra Feltre e Montefeltro). Alcuni commentatori hanno voluto vedere in lui anche il «DXV» profetizzato da Beatrice nel Purgatorio nel Canto 33. Cangrande è nominato in modo implicito, ma riconoscibile, da Cacciaguida, in questo 17° Canto del Paradiso, dove l'avo di Dante profetizza l'esilio e dice che gli Scaligeri daranno rifugio e protezione al poeta a Verona: soprattutto Cangrande, di cui si dice che l'influsso della stella di Marte lo porterà a compiere imprese notevoli, ("a mostrare faville de la sua virtute"), a realizzare magnificenze che, secondo Cacciaguida, risulteranno incredibili anche ai contemporanei. Di Cangrande si dice anche che "non si curerà d'argento né d'affanni", il che avvalora l'interpretazione che lo accosta al veltro (di cui Virgilio aveva detto che "non avrebbe concupito né terra né peltro", cioè non avrebbe ricercato né terre né ricchezze materiali).

    2 Clemente V: Bertrand de Got, originario della Guascogna, fu arcivescovo di Bordeaux e divenne papa nel 1305 - dopo Bonifacio VIII e il suo successore Benedetto XI - col sostegno di Filippo il Bello re di Francia, che fece schiaffeggiare Bonifacio VII nel famoso schiaffo di Anagni. Fu Clemente V a trasferire la sede papale da Roma ad Avignone.

    Clemente-V
    Papa Clemente V


    Sotto pressione di Filippo il Bello, Clemente V sciolse l'ordine dei Templari, dei quali Re Filippo incamerò tutti gli averi. Si oppose al tentativo di restaurazione imperiale in Italia, operato da Arrigo VII di Lussemburgo (questo è "l'inganno" descritto da Dante). Morì nel 1314. Dante ne profetizza la dannazione per simonia nell'Inferno (Canto 19), per bocca di papa Niccolò III, che compare fra i simoniaci della III Bolgia. Lì Clemente V è definito un "pastor sanza legge", intento a favorire il re di Francia. Nel Paradiso, oltre al cenno fatto a lui da Cacciaguida, nel Canto 30 Beatrice alluderà a lui come al Papa che "palese e coverto / non anderà con lui (Arrigo VII) per un cammino": cioè, Clemente V tradirà l'imperatore Arrigo VIII, il cui seggio è già pronto nella rosa dei beati, profetizzando che il Papa sarà sprofondato nella stessa buca della III Bolgia, dove sarà prima confitto Bonifacio VIII.

    3 Epistola XIII: "L'Epistola XIII a Cangrande della Scala" è l'ultima delle tredici lettere attribuite a Dante. Questa si divide in due parti: la prima contiene la dedica del Paradiso (che era ancora in corso di lavorazione) a Cangrande della Scala: "(...) ho esaminato i miei piccoli regali e li ho differenziati e poi vagliati, alla ricerca del più degno e gradito a voi. E non ne ho trovato uno adeguato alla vostra eccellenza più di quella sublime cantica della Commedia che si intitola Paradiso. E questa, con la presente lettera, come a Voi consacrata con propria epigrafe, a Voi la intitolo, la offro, la raccomando." La seconda parte contiene un commento della Commedia, che ne favorisce l'interpretazione, spiegandone la differenza tra il senso letterale e quello allegorico. Inoltre, spiega anche alcuni aspetti del Paradiso.

    (Continua qui)

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