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  1. FANFICTION LA GRANDE OMBRA - 46

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    Grande Ombra fanfic
    By joe 7 il 26 April 2016
     
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    FANFICTION GOLDRAKE: LA GRANDE OMBRA 46
    VUOI SPOSARMI, VENUSIA?
    Se volete seguire la storia sul blog, la prima puntata è qui
    Invece, se la volete seguire sul forum, la prima puntata è qui

    NOTA IMPORTANTE: questa storia è stata scritta prima che leggessi l'analisi di Gerdha su Venusia, quindi non mi era ancora chiara la faccenda del loro rapporto. Per questo, Actarus qui ci fa una pessima figura, perchè a quei tempi ero influenzato dal pensiero anti-Actarus diffuso in rete sul Gonagainet e in generale dovunque. Quindi è una versione che disconosco, ma la metto qui per completare la storia che feci allora.

    78a
    Immagine di Coqueluche.


    RIASSUNTO:
    Dopo la guerra contro Vega, Actarus e Venusia si sono sposati e sono andati a vivere su Fleed come re e regina. Però il loro figlio appena nato, Rex, è stato rapito da un essere misterioso, l’Oscuro, che comanda un esercito sterminato: vuole sacrificare Rex, quando, tra diversi giorni, sette stelle saranno allineate. Actarus ed altri amici organizzano il salvataggio di Rex, dando la caccia ai cristalli che possono sconfiggere l’Oscuro. Intanto, Venusia, sotto il falso nome di Hikaru, si è iscritta tra le Amazzoni di Jezabel, il braccio destro dell’Oscuro, per salvare Rex: ora è arrivata a Darkhold, il mondo/castello dell’Oscuro. Dopo alcune vicissitudini, Actarus finisce in coma e Jeeg Robot e Miwa devono combattere contro Shizuri, la Signora delle Nevi, una dei sei Generali dell’Oscuro, che ha appena ridotto il Big Shooter in neve davanti alla terrorizzata Miwa…
    (Nota: in questa storia, Alcor e Koji sono due persone diverse).


    Jeeg ha lanciato l’ultimo proiettile del bazooka. Recuperato in fretta il braccio, si dirige verso la montagna dove si è abbattuto il Big Shooter, per recuperare Miwa. Ma all’improvviso una catena di ghiaccio lo blocca saldamente avvolgendosi attorno a lui e facendolo cadere a terra. Il capitano dei Giganti della Tempesta, Kuin, è intervenuto. I nemici trapassano il petto di Jeeg con le loro lance, che restano conficcate nel corpo del robot. L’estremità della catena viene tirata con violenza e Jeeg è trascinato rudemente in mezzo al ghiaccio e alla neve, fino a quando un piede sulla sua spalla ferma la corsa. Dall’alto, un volto cupo e attraversato da una cicatrice lo fissa con crudeltà.
    “Sono il capitano Kuin, straniero. Hai ucciso molti dei miei compagni: preparati a rivederli all’inferno.”

    Dall’alto della montagna, una donna dai capelli bianchi, agitati dal vento, fissa la scena con totale indifferenza. Le sue mani, intrecciate davanti al petto, sono nascoste dalle lunghe maniche. Shizuri, la regina delle nevi, si volta verso Miwa, in piedi dietro di lei, che sta ancora cercando di rendersi conto di quello che è successo.
    “Il tuo nome?” chiede all’improvviso la donna misteriosa.
    “Eh…cosa?” chiede l’altra, ancora semistordita.
    “Il tuo nome.” ripete, in tono anonimo.
    “Mi…mi chiamo Miwa…e tu chi sei?”
    “Miwa e basta?” continua l’altra, senza rispondere.
    “Miwa Shiba. Perché vuoi saperlo? Chi sei?” replica la donna pilota, che sta cominciando a riprendersi. Per fortuna la tuta che porta non si è lacerata e il freddo lo sente solo in minima parte: anzi, il contatto col gelo la sta aiutando a tornare in sé.
    “Non lo immagini chi sono?” dice l’altra, enigmatica. Poi si volta ad osservare la battaglia ai piedi del monte, apparentemente senza badare più a Miwa.

    Actarus si sente come un morto vivente. Non può muoversi, non può parlare, non può aprire gli occhi. Dal tatto e dall’odore, capisce che si trova su un letto dell’ospedale. Avverte delle voci che conosce bene: Maria, Alcor. Vorrebbe salutarli, dire loro qualcosa, ma tutto è bloccato.
    Cosa sta succedendo? Ricorda vagamente di aver combattuto contro i suoi compagni. Perché l’ha fatto? Cosa era successo? All’improvviso, accade una cosa molto strana. Vede se stesso sul letto e osserva anche Maria e Alcor attorno a lui. Cerca di salutarli, di dire qualcosa, ma non lo vedono. E’ diventato un fantasma? E’ morto? Ma percepisce il suo cuore che batte ancora: gli strumenti attorno registrano in continuazione i suoi battiti.
    Allora sono una specie di fantasma vivente, riflette. Sente Maria che tiene la sua mano, o meglio quella del suo corpo, e gli sta parlando. No, non gli sta parlando. Sta cercando di contattarlo mentalmente. Actarus vorrebbe risponderle, ma percepisce una specie di muro invisibile. Però sente quello che lei gli “dice”. Sta rievocando il passato. E in quel momento gli sembra di riviverlo in modo così netto, così chiaro che è come se fosse tornato a quei tempi.

    “Allora, Actarus? Vieni con me sulla Terra o no?”
    A parlare è stata Maria. Gli sta stringendo la mano. L’Actarus di adesso, nei panni dell’Actarus del passato, si volta e ricorda quel momento. La guerra contro Vega era finita da tempo. Fleed stava cominciando a tornare a vivere. Il palazzo reale era stato ricostruito e loro due si trovavano nelle loro stanze.
    Maria aspettò da Actarus una risposta, ma lui restò in silenzio. Anche se, in un certo senso, l’Actarus di adesso è “tornato nel passato”, non può comportarsi diversamente da come fece allora. Sua sorella insistette:
    “Domani torno sulla Terra. Definitivamente. Sposerò Alcor e resterò lì. E tu vuoi restare qui? O vuoi venire con me? Perché sei così indeciso?” concluse, esasperata.
    Actarus ancora non rispose. Guardando attraverso i vetri delle finestre, liberò gentilmente la sua mano da quella di Maria e si allontanò, dicendole:
    “Ti risponderò domani” e l’aveva lasciata sola.
    Chiuso nella sua camera, rifletté. Maria ha deciso. Lei e Alcor in tutto questo tempo avevano fatto una corrispondenza così fitta da riempire una biblioteca. Si erano anche incontrati due o tre volte su Fleed o sulla Terra. E alla fine hanno fatto il grande passo.
    Ma io? si chiese.
    La corrispondenza di Actarus con la Terra era stata abbastanza frequente, ma più distaccata e formale. Ingratitudine? Paura? Chi lo sa.
    Sono sempre stato negato a scrivere. Il mio precettore non sapeva che fare, ricordò Actarus.
    Infatti, faceva delle frasi talmente stupide e banali che avrebbero lasciato interdetto un bimbo delle Elementari. I genitori e i maestri in un primo tempo pensarono che fosse deficiente. Ma poi capirono che non era affatto così: semplicemente, non sapeva scrivere ciò che pensava. In tutte le materie, poi, eccelleva: matematica, storia, geografia...solo la scrittura era sempre stata la sua bestia nera. Provava molte sensazioni e molti sentimenti, era stato anche capace a cantarli o a suonarli, ma non era mai riuscito a scriverli.
    Forse perché sono sempre stato un uomo d’azione, non di scrittura, riflettè.
    Incontri amorosi, esplorazioni, gare sportive erano assai preferibili ad un tema. Prima dell’attacco di Vega era piuttosto gaudente e felice, anche se sentiva sempre su di sé la responsabilità da principe ereditario. I suoi amici – Marcus, Kane, Amauta – le sue amiche, soprattutto Naida, erano il fior fiore della gioventù di Fleed: anche se alcuni venivano da altri pianeti, alla fine si erano trovati benissimo lì. Fleed era un paradiso, e…
    Basta. Sto divagando, sbottò Actarus, steso sul letto con le mani dietro la nuca, fissando il soffitto. Sto girando attorno al problema. Il problema è lei.
    Dopo che fu ricostruita Fleed, ma anche da prima, il Gran Visir insisteva in continuazione:
    “Sire, dovete sposarvi. Un re non può stare senza una regina.”
    Il Gran Visir gli aveva presentato molte principesse di Fleed o di altri pianeti, molto belle e che permettevano solidi legami con altri regni o imperi. Lila Sharlat, del regno di Klaatu. Mina Algard, dei Santovasku. Esthel, Mara e tante altre. Ma ogni volta che Actarus stava per decidere, gli appariva nella mente l’immagine di una ragazza che stringeva un vitellino appena nato o che guidava un apparecchio volante al suo fianco. Una ragazza tenuta prigioniera dal King Goli. Una ragazza alla quale una volta le aveva dato il suo stesso sangue perché potesse sopravvivere. Una ragazza che alla fine aveva lasciato sulla Terra in modo piuttosto frettoloso, pieno di pensieri per la morte di Rubina. Ma il ricordo della figlia di Vega era diminuito, mentre lei gli ritornava in mente in modo sempre più impetuoso.
    Venusia.
    Per colpa di Venusia, tutti i matrimoni erano andati a monte, rischiando a volte persino incidenti internazionali. Il Gran Visir era disperato. Ma Actarus non riusciva a dimenticare Venusia. Nei momenti di solitudine, nel cuore della notte o per un caso fortuito, pensava a lei. Stranamente, Venusia era diventata più presente da quando era assente. A volte, ad Actarus sarebbe sembrato normale vederla comparire davanti all’improvviso mentre apriva la porta, come se fosse sempre stata con lui. Provando subito una sensazione di delusione e vuoto, accorgendosi che non c’era nessuno. Ovviamente, Maria – col suo tipico intuito femminile – aveva già capito tutto.
    “Insomma, Actarus!” disse lei ad un certo punto “Che razza di messaggi cretini scrivi ai nostri amici sulla Terra? Banalità da giornalino della parrocchia! Tanto vale che tu scriva buongiorno e buonasera! Vai lì di persona se non sai scrivere! Se pensi sempre a Venusia, non glielo puoi certo dire con comunicazioni così idiote! Possibile che tu non sia tornato sulla Terra nemmeno una volta?”
    “Bè…almeno una volta sono tornato con te”
    “E sarebbe stato meglio se tu non l’avessi mai fatto. Sembravi un merluzzo. Non sapevi bene cosa dire e loro non sapevano bene come risponderti. Venusia era rimasta interdetta. Sembravi un altro.”
    “Le cose erano cambiate così in fretta che non sapevo neanch’io cosa dire…Fleed era tutta da ricostruire, avevamo poco tempo…” cercò di giustificarsi Actarus.
    “Bè, io sapevo cosa dire. Sai che io e Alcor abbiamo deciso di sposarci. Domani vado sulla Terra. Se vuoi venire con me, bene. Ma attento: se non lo fai, secondo me, Venusia la perderai per sempre. Decidi tu.”
    Il problema è che, nelle comunicazioni tra la Terra e Fleed, Venusia non aveva mai risposto. Solo due o tre volte, all’inizio. Poi più nulla. Zero assoluto. Actarus sulle prime si era rassegnato, ma poi il pensiero di Venusia diveniva sempre più forte. Capì alla fine che non poteva continuare così: doveva almeno parlarle, dirle qualcosa. Sapere quello che pensa. Alla fine, decise. Sarebbe tornato sulla Terra a bordo di Goldrake, ufficialmente per accompagnare Maria, ma soprattutto per parlare con Venusia.

    Il ritorno sulla Terra fu senza storia all’inizio: che bello rivederti, come stai, come vanno le cose, tutti bene? Alla base e al ranch erano tutti in fermento per preparare il matrimonio. Il vestito di Maria, quello di Alcor, le discussioni, i pareri. Actarus si sentì felice per loro, ma in fondo estraneo a tutto questo. Era passato un giorno intero e Venusia non si era ancora fatta vedere. In ogni momento, lui guardò a destra e a manca per sapere dove fosse. Senza neanche capire come, alla fine si trovò con addosso il vestito da testimone del matrimonio: guardandosi allo specchio, Actarus quasi non si riconobbe: giacca e cravatta, capelli perfetti, polsini con gemelli. Ma ad un certo punto non ce la fece più e chiese a Maria, che gli stava aggiustando il vestito:
    “Maria, hai visto Venusia?”
    “No.”
    No e basta?
    “Ma sai dov’è? E’ andata da qualche parte?”
    “Chiedilo a quelli del ranch. Perché lo chiedi a me? Sono tornata da Fleed solo ieri.”
    Actarus ebbe la sensazione che lei sapesse benissimo dove fosse Venusia e non avesse nessuna intenzione di dirglielo. Andò a chiedere a Procton ed Alcor, ma ottenne solo delle risposte evasive.
    Cosa diavolo era successo? cominciò a chiedersi Actarus, inquieto.
    Alla fine, marciò dritto al ranch, dove Rigel, Mizar e Banta stavano preparando gli addobbi per la festa dopo il matrimonio. Nessuna traccia di Venusia. Actarus si fece coraggio e chiese a Rigel:
    “Rigel, dov’è Venusia?”
    “Non è qui” rispose lui, mettendo gli impianti luminosi sulla scala del granaio.
    “L’avevo capito” disse Actarus seccato “Dov’è?”
    “A Tokyo”
    “A Tokyo?” Actarus rimase interdetto “Cosa ci è andata a fare a Tokyo?”
    “Lavora lì.”
    Venusia non lavora più al ranch? si chiese lui, allibito.
    “E…e che lavoro fa?”
    “Insegna alle elementari. Fa la maestra.”
    “La maestra? Ma ha studiato per fare la maestra?”
    “Certo. Aveva iniziato gli studi prima ancora di conoscerti. Te ne accorgi solo adesso?”
    “Si è laureata l’anno scorso” aggiunse Mizar.
    Venusia studiava, si laureava e io non ne sapevo niente? Actarus all’improvviso si sentì molto stupido.
    “Ma…perché se n’è andata? Poteva insegnare anche qui” disse lui.
    “Era impossibile, Actarus” affermò deciso Rigel, prendendo un altro filo di luci elettriche da una cassapanca.
    “Perché?”
    “E me lo chiedi?” disse lui, fermandosi davanti ad Actarus ed osservandolo dal basso all’alto con uno sguardo da fiero cowboy “Come poteva stare qui? Dopo tutto quello che era successo? Aveva affrontato il pericolo insieme a una persona che alla fine se n’era andata senza dirle più niente. Uno straccio usato e buttato via. No, non poteva più stare qui.”
    In preda all’ira, Actarus afferrò Rigel per il bavero sollevandolo di peso e fissandolo in faccia.
    “Cosa diavolo dici? Venusia io l’avevo salutata! Sapeva che io dovevo tornare su Fleed!”
    Rigel, per nulla impressionato, rispose:
    “E secondo te lei poteva passare il resto della sua vita a stare col naso all’insù aspettando te?”
    Actarus non replicò. Non seppe cosa dire. Sì, è vero, aveva abbandonato Venusia senza dire praticamente una parola in più. In quel momento, pensava solo a Rubina e al pianeta da ricostruire. Pensava solo a quello che era successo prima e a quello che doveva fare dopo. Non pensava al presente, all’adesso. In una parola, alla realtà. E Venusia era reale, non un ricordo come Rubina o un progetto come Fleed.
    Abbassò Rigel a terra, confuso. Si sedette su un secchio capovolto, cercando di riflettere. Venusia se n’era andata. “Attento: se non lo fai, la perderai per sempre” aveva detto Maria. Solo in quel momento, Actarus cominciò a capire il danno che aveva fatto. Ma ameno doveva vedere Venusia. A tutti i costi, voleva vederla. Neanche Vega in persona glie l’avrebbe impedito.
    “Per favore, Rigel, dimmi dov’è adesso. Devo parlarle”
    “Hmmm” bofonchiò lui “Mizar, dagli l’indirizzo. Poi vieni a darci una mano”
    “Va bene, papà” il ragazzo si diresse verso casa, dicendo: “Seguimi, Actarus”.

    Il viaggio in macchina fu tremendo. Actarus non si era mai spostato molto dalla zona del ranch: aveva visto qualche città ogni tanto, ma solo quelle vicine. Assaggiò l’inferno del traffico di punta delle vie di Tokyo, insieme ai sensi unici e ai lavori stradali, oltre all’impossibilità di identificare le strade della città con gli infiniti nomi sulla pianta stradale di Tokyo. Solo a notte fonda, parcheggiando in sosta vietata (non c’era un parcheggio libero neanche a fare un miracolo), riuscì a scendere dalla macchina, tutto indolenzito. Andare lì con Goldrake sarebbe stato facile. Ma non voleva farsi notare, cosa difficile da realizzarsi con un robot gigante. Alla fine trovò il posto, una specie di piccola pensione a due piani, con un orologio rotto in alto. Entrando, si rivolse all’amministratore, una signora dai capelli neri e lunghi, chiedendo di Venusia. Lei lo guardò sospettosa, poi disse un numero di stanza che Actarus fece fatica poi a trovare. Bussò, ma nessuno rispose. Insistette, suonò il campanello. Niente.
    Dove era andata a quest’ora, maledizione? si chiese.
    Alla fine, si sedette sul pavimento, aspettando. Prima o poi tornerà, si disse. Poi pian piano si addormentò.

    Alcune voci lo svegliarono. Con lo sguardo ancora assonnato, vide due persone che, camminando verso di lui, stavano chiacchierando. All’improvviso, la conversazione si spense. Lo avevano visto seduto per terra e forse l’avevano scambiato per un barbone. Actarus si alzò in fretta, cercando di nascondere l’imbarazzo, quando rimase senza parole osservando i due che erano arrivati.
    Uno era un uomo dall’aria elegante, ben vestito, con una cartella a tracolla. L’altra invece era una ragazza in tailleur, capelli raccolti a chignon e gonna attillata. A momenti non la riconobbe.
    Venusia.
    Con una traccia di rossore sulle guance, lei disse:
    “Actarus…sei proprio tu?”
    Lo sconosciuto le chiese: “E’ un tuo amico, Venusia?”
    “Ecco…” rispose lei, confusa “Bè, sì, Yusaku…è una persona che conoscevo…quando ero al mio paese, sai”
    Chi è questo tipo? si chiese Actarus, stanco e infastidito. L’altro sentì in qualche modo che era di troppo: poi lo sguardo dello sconosciuto coi capelli lunghi non gli piaceva per niente. Abbozzò una scusa e se ne andò in fretta. Dopo che si fu allontanato, i due si guardarono imbarazzati.
    “Cosa ci fai qui, Actarus?” chiese Venusia, stringendo a sé una borsa piena di libri e quadernoni.
    “Volevo parlarti”
    “A quest’ora di notte? E senza dirmi niente prima? Comunque, entra pure” rispose lei, aprendo la porta con la chiave. Accese le luci e mise libri e quadernoni sul tavolo. Actarus, incerto, si sedette e chiese, indicando la pila di materiale cartaceo:
    “Sono cose di scuola?”
    “Sì. Libri di testo e quadernoni dei bambini coi compiti da correggere” disse lei, togliendosi il tailleur e mettendolo sullo schienale della sedia. Si tolse i fermagli che le trattenevano i capelli, lasciandoli cadere. Erano diventati lunghi: quella fu la prima volta che Actarus vide Venusia coi capelli così. Le stavano molto bene: sembrava ancora più bella. Rimase senza parole.
    “Vuoi qualcosa da bere?” chiese lei.
    “No, grazie” rispose, insicuro.
    Venusia si sedette davanti a lui, incrociò le mani, se le mise sotto il mento e disse:
    “Non mi hai ancora detto perché sei qui. Di cosa volevi parlarmi?”
    “Bè…” Actarus non sapeva da che parte iniziare “Maria e Alcor si sposano, lo sai?”
    “Sei venuto fin qui solo per dirmi questo? Bastava una telefonata. Comunque lo so. Ho già mandato gli auguri e il mio regalo per loro. Salutameli quando torni.”
    “Ma perché non vai al loro matrimonio?”
    “Ormai il mio posto è qui. Sono contenta per loro, ma qui ho troppi legami: il mio lavoro mi impegna parecchio. E poi…insomma, dovresti saperlo. Non te l’hanno detto?”
    “Detto cosa?”
    “Sto per sposarmi.”
    Una bomba atomica avrebbe fatto meno effetto.
    “Ti sposi? Con chi?”
    “L’hai visto. Quella persona che mi ha accompagnata stasera. Si chiama Yusaku Toma. E’ professore di lettere. Ci siamo conosciuti qui a Tokyo.”
    “E senza dirmi niente?” Actarus non sentì mai così tanta furia in sé come in quel momento “Con tutto quello che abbiamo passato insieme?”
    “Cosa avremmo passato insieme?” chiese Venusia “Abbiamo combattuto contro i Veghiani che stavano per invaderci. Poi è finita e ciascuno è tornato a casa sua. E’ stata una cooperazione e basta. Dimmi tu cos’abbiamo in comune, Actarus. Cosa sai tu di me?”
    “Ci siamo salvati la vita a vicenda tante volte…”
    “Non cambiare discorso, Actarus” lo interruppe Venusia “Cosa sai tu di me? Lo sapevi che studiavo per diventare insegnante? Conosci i miei gusti? Sai qual è il mio piatto preferito? Il mio colore preferito? Il mio modo di vedere le cose? Dimmi, cos’abbiamo in comune?”
    “Potrei farti la stessa domanda! Anche tu non sai nulla di me!” sbottò Actarus.
    “Con una certa differenza” rispose lei “che tu non mi chiedevi mai qualcosa su di me. Io invece ti chiedevo spesso qualcosa su di te, ma tu cambiavi discorso facendo il bel tenebroso. Ti ripeto: cos’abbiamo in comune, io e te? Te lo posso dire subito: niente.”
    Actarus rimase spiazzato. Purtroppo quello che diceva Venusia era vero. Provò un forte senso di vergogna.
    “Tu sei il re di un mondo lontano” rincarò Venusia”e io una donna qualunque che prima faceva la contadina e adesso fa l’insegnante. Non c’è niente in comune tra due persone così. Ero attratta da te, com’è successo con tutte le donne che hai conosciuto, poi, quando tu te ne sei andato l’attrazione era finita. Inoltre, in quel momento, se ricordo bene, eri tutto un sospiro per Rubina. Chissà se lo sei ancora.”
    Actarus non rispose. Guardò il tavolo, abbassando lo sguardo.
    “Comunque, non ho ancora capito perché sei venuto, Actarus. Eri di passaggio e volevi salutarmi?”
    “Io…volevo vedere come stavi.”
    “Sto benissimo, come vedi. Però sarebbe stato meglio se fossi venuto in un altro momento della giornata. Se vuoi, torna domani. Comunque, adesso devi andare via.”
    “E perché?”
    “Actarus, questa è una pensione femminile. Non posso tenere qui un uomo in camera a quest’ora.”
    Venusia si alzò e si diresse verso la porta, aprendola.
    “Vai pure” disse lei “e teniamoci in contatto”
    Ma Actarus non si mosse. Rimase in piedi per lunghi attimi, sentendosi bruciare dentro come non gli era mai successo prima. Camminando a passi decisi, chiuse la porta dall’interno, facendola sbattere sotto lo sguardo spaventato di Venusia. Poi le prese i polsi alla schiena con una mano e con l’altra tirò fuori il suo medaglione. Venusia cercò di divincolarsi, ma la mano di Actarus sembrava d’acciaio.
    “Goldrake, avanti!” gridò alzando il medaglione.
    “Cosa vuoi fare? Sei impazzito?” esclamò Venusia, continuando ad agitarsi inutilmente.
    Vicino alla Betulla Bianca – o Rocket Ranch – stava il disco volante di Goldrake col suo robot-samurai, mimetizzato sia al radar che a vista umana. Appena ricevuta la chiamata di Actarus, si alzò e si librò in cielo diventando una stella cometa.
    Maria osservò la luce che si allontanava nella notte, sogghignando e tenendo in bocca una spiga di grano, seduta su una staccionata, mentre Alcor le stava parlando. Sorpreso, le chiese:
    “Perché ti metti a ridere tutt’a d’un tratto?”
    “Penso che Actarus non ci sarà al nostro matrimonio, sai. Bisognerà trovare un altro testimone…”

    L’UFO di Goldrake si fermò esattamente sopra la pensione di Venusia, invisibile a tutti. Actarus aprì una finestra, tenendo stretta Venusia con sé, che cercava inutilmente di liberarsi, poi si gettò con lei nel vuoto. Venusia gridò, ma furono presi tutti e due a mezz’aria dal raggio traente di Goldrake, che li attirò nella sua astronave, mentre i vestiti di Actarus si trasformarono in quelli di Duke Fleed. Si trovarono tutti e due nella cabina di controllo dell’astronave e lui disse:
    “Goldrake, partenza. Andiamo”
    L’astronave partì verso lo spazio a velocità impossibili per qualunque veicolo terrestre. Venusia, che era tornata libera di muoversi, aggredì Actarus:
    “Cosa ti salta in testa?” gridò “Vuoi rapirmi? Ti sembra questo il modo di comportarsi? Credi di cambiare qualcosa facendo così?”
    “Lo so, Venusia” disse Duke Fleed sotto il casco “Sto facendo qualcosa di sbagliato. Certo, non mi sto comportando bene. Certo, non è la cosa giusta da fare. Ma la faccio lo stesso”
    “Dove mi stai portando?” volle sapere lei.
    “Su Fleed. Non l’hai mai vista, no? Bè, è l’occasione giusta per farlo.”
    “Su Fleed?” rispose lei, incredula “Sei impazzito? Non posso lasciare il mio lavoro! Questa è prepotenza, Actarus! Portami subito indietro!”
    “Manderò una lettera alla pensione e alla tua scuola dicendo che stai poco bene o qualcosa del genere. Il tuo lavoro non rischierà nulla.”
    “Portami indietro, ho detto!”
    “No. Qualunque cosa, ma questo no.”
    “Allora sono diventata un oggetto? Una prigioniera?” chiese Venusia.
    “Hai frainteso, Venusia.” disse Actarus, aprendo il visore del casco e voltandosi a guardarla “Tra noi due, il prigioniero qui sono io. Non voglio che tu te ne vada.”
    Actarus disse questo con una voce strana che Venusia non aveva mai sentito.
    “Hai dato una possibilità a quell’uomo, a quanto ho capito. Non vuoi dare almeno una possibilità a me? E’ l’occasione giusta per conoscerci a vicenda. Poi, sarai libera di decidere con chi stare.”
    Venusia rimase confusa e non seppe cosa rispondere. Actarus la guardò per un momento, poi abbassò il visore e programmò sui comandi la rotta per Fleed. Il viaggio fu fatto in totale silenzio.
    Il resto è storia. Venusia si integrò facilmente con Fleed e i fleediani; lei e Actarus impararono a conoscersi meglio. Lui le mostrò i luoghi dove era vissuto, le parlò di sé e così pure lei. Capirono che si intendevano assai profondamente. Il matrimonio fu fatto su Fleed in pompa magna e sicuramente Rex fu concepito quella notte stessa.
    Era un anno circa che si erano sposati. E adesso? L’attacco dell’Ombra li aveva divisi ancora. Eppure, Actarus sente che il legame tra lui e Venusia è diventato sempre più forte, tanto da avvertire ora, che è in una forma spirituale, dove si trova lei esattamente.
    In un attimo, la “forma spirituale” di Actarus è davanti a Venusia, che sta dormendo profondamente su un pagliericcio. E’ in mezzo ad animali simili a grossi uccelli a due zampe, messi in recinti come se fossero in una stalla. L’Actarus-fantasma osserva Venusia. Ha l’aspetto stanco e lacero. Si è tagliata i capelli e ha un vestito coperto parzialmente da placche di metallo. Tiene in mano una spada col fodero riccamente decorato. I suoi vestiti sono rovinati e pieni di diversi tagli dappertutto.
    “Venusia” dice la forma immateriale di Actarus “so che non puoi sentirmi e, se tu adesso apristi gli occhi, non mi vedresti. Non posso nemmeno toccarti. Vorrei poterti dire qualcosa…”
    Dopo n momento di pausa, riprende:
    “La nostra storia d’amore è stata assai ridicola, Venusia. Avrei dovuto muovermi molto prima. Ti ho fatto soffrire parecchio, eh?”
    Sorridendo tristemente aggiunge: “Mi dispiace, e non ti immagini quanto. Ma è inutile piangere sul latte versato. Verrò a salvarti, Venusia, te lo giuro: se non lo faccio io, ci riusciranno i miei compagni. Qualunque cosa accada, anche la morte, ti proteggerò”
    Actarus sente all’improvviso che qualcosa lo chiama. Qualcosa di livello superiore. Deve andare.
    “Non so se riuscirò a tornare nel mio corpo, Venusia. Però perdonami per tutto il male che ti ho fatto” Allontanandosi, aggiunge: “Ti amo”. Poi scompare.
    Poco dopo, Venusia si sveglia di soprassalto.
    “Actarus?” chiede, gridando.
    Si guarda intorno, spaventata. Niente. L’angolo buio delle stalle, le Diatrymas, la spada che tiene in mano, il pagliericcio sotto di sé. Non c’è nessuno. Eppure poco fa ha avuto la sensazione nettissima che Actarus fosse qui.
    Un sogno? Un’impressione? si chiede. Ma sembrava così reale. Stringe a sé la spada nel fodero, tremando leggermente.

    Continua qui.


    Edited by joe 7 - 27/4/2016, 14:56
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    "FANFICTION GOLDRAKE: LA GRANDE OMBRA 46 - VUOI SPOSARMI, VENUSIA?
    NOTA IMPORTANTE: questa storia è stata scritta prima che leggessi l'analisi di Gerdha su Venusia, quindi non mi era ancora chiara la faccenda del loro rapporto. Per questo, Actarus qui ci fa una pessima figura, perchè a quei tempi ero influenzato dal pensiero anti-Actarus diffuso in rete sul Gonagainet e in generale dovunque. Quindi è una versione che disconosco, ma la metto qui per completare la storia che feci allora".

    Questo è vero, ma allo stesso tempo, anche adesso, dopo aver letto e capito l'analisi, chiunque provasse a scriverci sopra un storia "reale" dei personaggi, poche righe dopo uscirebbe dal seminato - io per prima, ovviamente - questo come valore aggiunto che i fumetti, anche se non tutti, sono come tu dici nel post.


    Scusa se ti ho postato qui il tuo post, ma mi sembrava più corretto metterlo qui, visto che l'argomento riguarda questo articolo.

    L'analisi di Gerdha (sia su Venusia che su Naida/Rubina) è stata accuratissima e finora difficile da contestare, visto che le varie resistenze all'analisi si basavano solo su impressioni personali e non su dati di fatto. Senza contare che simili impressioni mancavano di logica: ne ho già parlato qui, confutando queste controipotesi, fatte anche senza avere nessun fondamento concreto, al contrario delle analisi di Gerdha.

    In ogni caso, è vero quello che tu dici: dopo aver visto la complessità dei personaggi, trovo che sia impossibile fare una fanfiction basandosi sui personaggi reali. Infatti, la narrazione di Atlas Ufo Robot era una "narrazione mascherata" e una fanfiction aderente a questa narrazione diventerebbe una "narrazione smascherata" e i personaggi risulterebbero in qualche modo "diversi" lo stesso. Una Naida fredda e senz'anima e una Rubina cinica calcolatrice sarebbero irriconoscibili, perchè infrangerebbero il modo con cui sono state presentate (e questo solo per citare come esempi quelli più eclatanti: ma ce ne sono altri, tipo la storia dei cervelli fleediani, il rapporto tra Duke e la sorella, eccetera).

    Io non ho la pretesa di considerare le mie fanfiction come delle corrette interpretazioni dei personaggi, quindi accetto senza problemi l'analisi di Gerdha. Ma chi ha fatto delle fanfiction e le considera come l'unica, indiscutibile e vera interpretazione dei personaggi di Goldrake (fatta basandosi esclusivamente sulle proprie impressioni, senza avere alcuna prova concreta) non può accettare i risultati di un'analisi fatta con serietà come quella di Gerdha. La può screditare, la può deridere, ma non può confutarla in nessun modo, non avendo nessun elemento concreto in mano per ribattere. Mentre l'analisi di Gerdha di elementi concreti ne ha fin troppi.
     
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